Abbiamo salvato le banche europee ma cosa facciamo con gli stati maggiormente indebitati?

Alla fine pare l’abbiano capita. E i mercati pare abbiano capito che l’hanno capita e si sono tranquillizzati riguadagnando parecchi punti. Nicolas Sarkozy e Angela Merkel nei giorni scorsi, senza troppe difficoltà, si sono finalmente trovati d’accordo senza troppe riserve mentali: metteranno in campo tutti gli strumenti finanziari necessari per proteggere le banche dell’eurozona, in primis quelle francesi e tedesche, ovviamente, dai nuvoloni che si sono addensati sui loro sportelli, per la crisi di liquidità e per i consistenti pacchi di titoli del debito sovrano di paesi a rischio che detengono nei loro caveau.

Ancora una volta l’asse franco-tedesco detta la linea a tutti i 17 paesi dell’area Euro: qualcuno ha già fatto le sue rimostranze per questo direttorio a due prepotente, ma perlomeno stavolta i due big dell’eurogruppo hanno gettato alle spalle incertezze, formule ambigue e rinvii alle calende greche che anche in un recentissimo passato contribuivano ad allarmare le Borse e a peggiorare la situazione. La punizione del “moral hazard”, tanto cara al cancelliere fino a poco tempo fa, oggi passa in secondo piano.

Se capiterà l’occasione gli investitori spericolati verranno penalizzati, ciò che in parte succederà di sicuro per chi si è riempito le tasche di bond ellenici, ma la priorità assoluta va ora decisamente al salvataggio degli istituti di credito, costi quel che costi. Sarkozy e Merkel si sono resi conto che alcune delle loro banche, e non le più piccole, stavano avvicinandosi troppo all’orlo del precipizio.

Come è noto le aziende di credito francesi e tedesche sono quelle che detengono in portafoglio le quote maggiori di debito pubblico greco, a parte le banche greche: oltre 50 miliardi di euro in bond ellenici sono in pancia agli istituti francesi, primo fra tutti Bnp Paribas, e circa 35 miliardi sono sul groppone dei tedeschi, primo fra tutti Commerzbank. Per l’Italia, invece, l’esposizione nei confronti della Grecia sta ben al di sotto dei tre miliardi.

Ma tutto ciò era chiaro già da parecchio tempo e non era sufficiente a convincere Parigi e Berlino ad apprestare cinture di salvataggio a prova di default. Meno noto è che nel caso del Portogallo, altro paese a rischio, sono le banche spagnole ad essere le più esposte, circa 85 miliardi, seguite nuovamente da quelle tedesche (36 miliardi) e francesi (27). Quando poi nel novero dei debiti sovrani a rischio sono entrate la Spagna e l’Italia, Parigi e Berlino si sono rese conto che non si poteva più far finta di niente: ancora una volta le banche dei due paesi più forti dell’euro erano le più esposte.

Ad esse si debbono aggiungere le banche inglesi: la Gran Bretagna è fuori dall’euro ma gli istituti di Sua Maestà sono ben dentro l’occhio del ciclone, inzeppati come sono di titoli dei Piigs. Non è un caso che ultimamente anche d’oltre Manica si siano levati pressanti inviti a interventi in difesa dell’euro.

Per parlare solo dell’Italia, basti ricordare che oltre la metà del nostro immenso debito pubblico è nelle mani di investitori stranieri (trattasi di circa 800 miliardi di euro) e, ancora una volta, Francia e Germania, con Stati Uniti e Cina, sono i più appassionati collezionisti di Btp (o perlomeno lo erano fino a pochi mesi orsono: oggi se ne libererebbero volentieri ma temono le perdite in conto capitale e i relativi contraccolpi sulla loro stabilità finanziaria). In Germania, per la verità, le aziende di credito si sono date da fare per alleggerire la loro posizione sull’Italia. Ma, si sa, queste operazioni hanno il fiato corto, innescano circoli viziosi: in una situazione di insicurezza, la vendita di una quota dei titoli posseduti può provocare cadute più che proporzionali nel valore di quelli che rimangono in portafoglio e risultare una cura peggiore del male.

Comunque, tra il 2008 e quest’anno, le banche tedesche si sono liberate di oltre 70 miliardi di euro di titoli pubblici italiani, mentre quelle francesi ne hanno venduti un po’ di più ma gliene rimangono in portafoglio quasi il triplo di quelli detenuti dai tedeschi. Nel loro complesso le aziende di credito europee si sono disfatte di circa 350 miliardi di titoli italiani: sarebbe interessante sapere a quanti clienti li hanno rifilati garantendo loro un buon affare!

Al sollievo dovuto all’alleggerimento del peso di questi bond ormai poco ambiti si è però coniugato il disappunto per le perdite in conto capitale che, non solo per il caso dei titoli italiani ma anche per quelli di altri debiti sovrani, possono venire contabilizzate con ritardo ma alla fine rischiano di far deragliare i parametri patrimoniali fino, nei casi estremi, a provocare fallimenti. Il caso Dexia, grande gruppo bancario belga-francese inzeppato di titoli tossici e proprio in questi giorni salvato in extremis per la seconda volta dai due governi, avrà certamente accelerato la riflessione delle cancellerie.

A questo punto ci si può chiedere: per via dei loro pressanti “interessi di bottega”, Parigi e Berlino hanno preso una lungimirante posizione sulle crisi bancarie (se ne capiranno i concreti dettagli, fondamentali, nelle prossime settimane), ma tutto ciò alleggerirà la crisi dei debiti sovrani? Il quesito impone una duplice risposta.

Da un lato, in un mondo globalizzato, anche solo annunciare che non si tollereranno crisi bancarie depotenzia l’effetto domino di eventuali default dei debiti sovrani e placa il panico che da mesi serpeggia (per usare un eufemismo) nel mondo della finanza e degli investitori. Quindi l’intesa franco-tedesca e, auspicabilmente, un prossimo accordo nell’ambito dell’eurogruppo nella medesima direzione, ha un impatto decisamente positivo.

D’altra parte, però, l’insicurezza degli investitori riguardo ai debiti pubblici di alcuni paesi non sembra destinata a ridursi significativamente per via di quell’accordo: le banche oggi “salvate” in corner tenderanno comunque a conquistare nel medio termine spiagge più sicure: Come? Ma è chiaro: liberandosi di ulteriori quote dei titoli sospetti in loro possesso. In prospettiva, quindi, il problema del finanziamento dei debiti pubblici dei paesi a rischio, beninteso a parità di ogni altra condizione, pare destinato ad aggravarsi.

Per tutti i paesi, quelli più “forti”, spesso considerati “sicuri” senza esserlo affatto, così come quelli più fragili, i salvataggi bancari, se vi saranno e se saranno numerosi e costosi, comporteranno un ulteriore aumento del debito internazionale complessivo, già aumentato a dismisura negli ultimi anni. Anche dopo la crisi del 2008, il debito mondiale è continuato a crescere: in alcuni casi vi è stata un po’ di riduzione del debito privato, accompagnata però da uno strabiliante incremento di quello pubblico (solo negli Stati Uniti l’aumento ha toccato gli ottomila miliardi di dollari). E’ stato stimato che paesi come l’Irlanda abbiano un debito privato pari al 370 per cento del pil. Le altre nazioni europee stanno in genere un po’ meglio, ma sempre con livelli di indebitamento privato, per non parlare di quello pubblico e di quello delle aziende di credito, da far tremare le vene ai polsi: la Spagna raggiunge il 280 per cento del pil, la Francia supera il 200 per cento e la Germania il 142.

Secondo una ricerca del Credit Suisse, il debito totale delle economie avanzate è passato da circa il 150 per cento del loro pil complessivo nel 1980 ad oltre il 250 odierno. Il continuo galoppo dell’indebitamento mondiale è, a mio avviso, la vera causa prima della crisi di questi anni, considerata anche la sua crescente ingovernabilità per via della globalizzazione e dei vasi finanziari comunicanti che porta con sé.

Poiché, come predicava Milton Friedman, in economia alla fin fine “non esistono pasti gratis”, la riconquista della fiducia nelle aziende di credito e nei debiti sovrani richiederà parecchio tempo (e speriamo non troppo, poiché, come ironizzava J. M. Keynes replicando a chi lo accusava di occuparsi solo dei problemi di breve periodo, “sul lungo periodo saremo morti”) e soprattutto un processo convincente di riduzione del debito pubblico dei paesi a rischio e di quello globale di tutti, nessuno escluso. Impresa difficilissiama, quest’ultima, soprattutto se non vi sarà un’inversione di tendenza della congiuntura e quindi una ripresa stabile e consistente.

Articolo ripreso da blitzquotidiano.it