Alberto Forchielli: “Le startup italiane peggio dei testimoni di Geova”

Forchielli, parlando di startup italiane, racconta come nel suo libro Il Potere e’ noioso aveva raccontato tre cose dal quale bisogna stare alla larga in chiave di business: “… La terza fregatura da evitare assolutamente è farsi convincere a finanziare una start up, sostenuta solo da un’idea e non da un accurato business plan. Anche questa è una roba che in Italia ti propongono di continuo. Negli altri Paesi arrivano e ti parlano di costi, ricavi e utili al centesimo, mentre da noi ti dicono «ho un’idea geniale, dammi i soldi». L’unica risposta plausibile: «Andate ben a fare delle pugnette!»”

Davvero, funziona così. Io sono abituato alle modalità di Boston e, lo sapete, negli ultimi tempi sono stato pochissimo in Italia, perciò me ne ero quasi dimenticato di come si comportano da noi gli “Startupper”. Poi a luglio sono tornato e, come al solito, hanno ricominciato a chiedermi un appuntamento per presentarmi le loro mirabolanti startup italiane.

La differenza mi fa star male. Mi viene proprio un dolore al petto e sospetto tutte le volte un infarto che mi lascerà secco lì per terra, tra piscina e giardino.

A Boston si presentano dei laureati con Master al MIT o ad Harvard per presentarmi dei prodotti che hanno già avuto l’accortezza di brevettare. E magari questi ragazzi hanno inventato, ripeto, brevettandole, delle nuove molecole o delle apparecchiature ultra-tecnologiche nel campo biomedicale, peraltro già approvate dalla Food and Drug Administration – che è l’ente governativo statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici e che dipende dal Dipartimento della Salute – perché non si permetterebbero mai di venire a disturbarmi prima della relativa approvazione ministeriale. Con progetti dettagliati al millesimo, con una panoramica mondiale sui competitor e sull’avanzamento tecnologico della concorrenza, chiedendomi uno o due milioni di dollari per finanziare un business dalla a alla z, e dove dal giorno dopo si comincia a guadagnare o almeno con una seria prospettiva di andare verso quella direzione.

A Imola le aspiranti startup italiane si presentano con otto pagine in pdf di un’idea abbozzata, ovviamente senza nessuna copertura di un qualsiasi tipo di brevetto – fosse anche solo per l’entroterra romagnolo – e senza sapere a che punto sono nel resto del mondo in quel particolare business. E ultimamente, con 10 o 20 anni di ritardo rispetto agli USA, tanto per farmi incazzare ancora di più, tutti mi parlano di “piattaforma”, esprimendo concetti vaghi ed elementari. Poi mi chiedono 200 o 300mila euro per partire. Mentre la piattaforma che cercano di vendermi, per dargli un minimo di visibilità mondiale, verrebbe a costare almeno 20 milioni di dollari. Ma a questo loro non ci hanno pensato. E davvero sembra che vengano da me con l’idea alla “prendi i soldi e scappa” o giù di lì.

Ma l’aspetto più tremendo dell’intera questione è l’atteggiamento.

startup italiane
in foto: Alberto Forchielli

Del tutto antitetico.

A Boston questi ragazzi ultra preparati e competenti mi ringraziano di cuore del tempo che gli sto dedicando, si vede che non fanno finta. Alla scrivania, di fronte al sottoscritto, stanno con il culo in punta di sedia, con il piede ballerino per la tensione dell’opportunità che hanno di fronte. E se vedono che dopo un quarto d’ora perdo attenzione, decidono di andarsene di loro spontanea volontà, ringraziandomi di cuore per il tempo che gli ho potuto dedicare. E se a fronte di un no, faccio critiche o appunti, loro sono grati di tali spunti di riflessione perché sono certi che li aiuteranno a crescere ulteriormente il loro ottimo business plan.

A Imola quando gli smonto il loro giochetto campato per aria, si incazzano e iniziano a litigare con me. Hanno una strafottenza assurda, del tutto fuori contesto. Non sono davanti a me per costruire qualcosa insieme – come i ragazzi a Boston – ma, tragicamente, per provare a chiedermi la carità, in una (poco) velata richiesta di elemosina. E al mio rifiuto, non si schiodano più. Iniziano a lamentarsi e a litigare, senza nessun tipo di modestia e palesando capacità intellettuali limitate.

A casa mia, dopo diverse sceneggiate simili, ho dovuto, mio malgrado, centellinare questi supplizi. Quando gli startupper italiani mi citofonano, le mie assistenti dicono queste parole salvifiche: il dottore è a letto. Mentre io sono davvero chiuso in camera con il terrore di vederne un altro ancora. Preferisco leggermi il Bugiardino sulle emorroidi piuttosto che incontrare l’ennesimo “cioccapiatti”. Così non dovete sorprendervi se davanti al cancello di casa mia trovate le seguenti raccomandazioni:

No pubblicità in buchetta.

No testimoni di Geova.

Alla larga gli startupper.

(Nota della redazione: 1 – porgiamo le nostre scuse ai Testimoni di Geova ma riportiamo fedelmente il pensiero dell’autore – 2 – concordiamo con la visione del dott. Forchelli sulle startup italiane pero’ ci domandiamo anche con che soldi i ragazzi dell’MIT abbiano richiesto un brevetto che presumiamo essere a livello mondiale. Qualcuno deve avere dato anche a loro i 300.000 per iniziare)

Testo ripreso da Il Piano Inclinato – pianoinclinato.it/startupper-italiani-andate-ben-delle-pugnette/