Recentemente (sabato 27/11/13) il Governo ha approvato un decreto legge, attualmente al vaglio del Parlamento per la conversione in legge, che stabilisce nuove norme riguardanti il capitale e gli organi dell’istituto di Via Nazionale con l’obiettivo di rafforzarne l’autonomia e l’indipendenza. La Banca d’Italia viene quindi autorizzata ad aumentare il proprio capitale mediante utilizzo delle riserve statutarie sino a euro 7,5 miliardi e a distribuire dividendi annuali per un importo non superiore al 6% del capitale.
Ciascun partecipante al capitale non potrà possedere – direttamente o indirettamente – una quota di capitale superiore al 5% e la Banca potrà acquistare temporaneamente le quote di partecipazione in possesso di altri soggetti per favorire il rispetto di tale limite. Il decreto inoltre amplia il novero dei soggetti italiani ed europei che possono detenere quote del capitale, potendosi autorizzare le banche, le fondazioni, le assicurazioni, e gli enti ed istituti di previdenza, inclusi i fondi pensione. Per effetto di questa modifica normativa, le banche azioniste potranno essere autorizzate ad includere le quote nel patrimonio di vigilanza, rafforzandone la base di capitale.
Tale riforma prende le mosse da uno studio reso pubblico lo scorso 9 novembre sull’aggiornamento del valore delle quote di capitale della Banca d’Italia redatto dallo stesso Istituto di Via Nazionale su richiesta del Dicastero di Via XX Settembre. Il tema è di quelli tra i più affascinanti per un economista, stabilire il valore di un ente economico unico per funzione e caratteristiche, sempre che sia possibile. La Banca d’Italia è difatti un istituto di diritto pubblico che persegue finalità d’interesse generale nel settore monetario e finanziario.
Per tale arduo compito Palazzo Koch si é avvalsa di un comitato di esperti composto dai professori Franco Gallo, Lucas Papademos e Andrea Sironi. Tuttavia prima di individuare il metodo di valutazione, l’istituto di Via Nazionale affronta la controversa questione della proprietà del proprio capitale, chiarendo subito che per garantire la propria piena indipendenza occorre preservarne la proprietà privata, citando il caso della Federal Reserve. Strano, dato che è anche vero che la Bank of England, la Banque de France e la Bundesbank (non citate nella memoria assai poco imparziale della Banca d’Italia) sono di proprietà esclusivamente pubblica, come pubbliche sono pure le altre Autorità italiane (ISVAP, CONSOB, AVCP, L’Autorità per l’energia elettrica e il gas, ecc.) che svolgono egregiamente le proprie funzioni pur non essendo possedute dagli enti vigilati. La memoria continua ribadendo come “… l’equilibrio che per anni ha assicurato l’indipendenza dell’istituto, preservandone la capacità di resistere alle pressioni politiche, non va alterato.”
Per Palazzo Koch da una proprietà pubblica non possono che aversi effetti negativi, di fatto censurando addirittura le decisioni del legislatore che con la legge n. 262 del 2005 ha previsto il trasferimento allo Stato delle quote di partecipazione al capitale della Banca d’Italia in possesso di soggetti diversi dallo Stato o da altri enti pubblici, mediante l’adozione di un regolamento entro tre anni dalla data di entrata in vigore della legge, ad oggi mai emanato. Tuttavia il Governo ha recepito in pieno tale censura proveniente da chi avrebbe dovuto, piuttosto, attendere in rispettoso silenzio le determinazioni governative. Tra le pieghe del decreto, all’art. 6 comma 4, si nasconde infatti l’ulteriore previsione di grande impatto, l’abrogazione del noto comma 10 articolo 19 della legge, che prevedeva la cosiddetta “rinazionalizzazione” di Bankitalia.
A fronte di questo enorme conflitto d’interessi non gestito, la memoria della Banca d’Italia si preoccupa poi di gestirne un altro, ben minore. Per “evitare la possibile (erronea) percezione che la Banca possa essere influenzata dai suoi maggiori azionisti” – una più equilibrata distribuzione delle quote, a fronte dell’attuale livello di concentrazione, ereditato storicamente dal possesso del 20%, per un totale pari al 60%, da parte di ciascuna delle tre vecchie Banche di Interesse Nazionale (Banco di Roma, Credito Italiano, Commerciale Italiana) oggi confluite in Unicredit e Intesa.
Al di là del problema del conflitto di interessi, che peraltro non si risolve con una minore concentrazione delle quote, gli assunti da cui partono gli estensori della riforma sono incompatibili con la natura (istituto di diritto pubblico) e la funzione di una banca centrale (gestire il bene pubblico per eccellenza: la moneta). L’attivo e il passivo di una banca centrale sono lo specchio della ricchezza e dell’economia di un paese. L’oro e le riserve accumulate nell’attivo – che consentono alle banche di ricevere oggi dividendi alla base del calcolo del nuovo valore possibile del capitale della Banca – sono il frutto del lavoro degli italiani, che hanno consentito alla Banca di accumulare oro cambiando le riserve estere accumulate con surplus della bilancia commerciale che hanno caratterizzato per anni lo sviluppo italiano. Colpisce dunque il testo stonato della nota della Banca dove addirittura si parla di riforma che “risarcirebbe appieno i partecipanti” bancari.
Tanto premesso, il rapporto arriva quindi ad individuare il metodo sovrano utilizzato in finanza per valutare un’attività finanziaria, il cosiddetto metodo dei flussi di cassa attualizzati (DCF), come se la Banca d’Italia fosse un qualsiasi ente economico e non considerando come la privatizzazione delle quote è avvenuta. Quando infatti, implicitamente, la proprietà della Banca è stata privatizzata tra il ’92 e il ’97 con la vendita delle tre BIN, al Tesoro qualcuno ha per caso effettuato il DCF sulle quote della Banca che le tre BIN avevano in pancia (circa il 60%, ossia 20% ciascuna)? E, soprattutto, quanto era l’ammontare del debito italiano sul bilancio della BdI che da un giorno all’altro, con la privatizzazione, da “fittizio” è diventato “reale”? .
Più che fermarsi sulla correttezza dei parametri utilizzati per arrivare alla stima con il DCF del valore aggiornato delle quote, occorre infine chiedersi se sia corretto valutare una banca centrale con tale metodo. Quale sarebbe il rischio di impresa di un ente che per il nome stesso, il prestatore di ultima istanza, non potrebbe fallire? Quale quindi il giusto tasso di ritorno? E come si può affermare che la sola parte di proventi pubblica al 100% – e quindi non soggetta a dividendi – è quella del signoraggio, come se le altre funzioni non fossero pubbliche? E questo in presenza di un ente che paradossalmente potrebbe operare senza capitale proprio!
Come non sorridere di fronte alle conclusioni tautologiche degli esperti, che fanno affermare alla Banca d’Italia nella sua memoria: “la riforma non modificherebbe i diritti economici dei partecipanti, garantendo loro un flusso di dividendi il cui valore attuale netto è pari al valore corrente stimato delle azioni della Banca”, quando il valore del dividendo per gli azionisti bancari – in teoria sorvegliati quanto a vigilanza dalla Banca d’Italia stessa – verrebbe a quintuplicarsi, come riportato dal rapporto, da 74 a 360/420 milioni di euro?
I più cinici diranno che l’obiettivo della riforma è quello di aiutare le nostre principali banche a rafforzare il proprio capitale mediante la vendita delle quote e lo Stato a reperire un miliardo in tasse sulla plusvalenza. A questi ribattiamo che finalità di questo tipo possono essere portate a termine senza calpestare, in poco più di tre pagine, la percezione di indipendenza reale delle nostre istituzioni più prestigiose come è a tutt’oggi la Banca d’Italia.
Articolo ripreso dal sito gustavopiga.it – Autore: Gustavo Piga