Il governatore della Banca d’Italia non si è mai nascosto dietro un dito e, pure con il linguaggio felpato che non rompe la tradizione comunicativa della banca centrale basta ascoltare i suoi ripetuti inviti al cambiamento strutturale nella finanza delle imprese e nella finanza delle banche per capire che ha idee chiare.
Questo è un estratto da uno dei suoi ultimi interventi a Bari il 29 marzo. Titolo: “Capitale umano, innovazione e crescita economica“. Oltre che di capitale umano Visco ha parlato di capitale vero, quello che nei bilanci dovrebbe comparire sotto la voce Capitale Sociale e che oggi scarseggia su tutta la linea.
Questi sono i principali punti che Visco ha toccato:
1) Imprese troppo indebitate
Nel confronto con gli altri principali paesi avanzati, la struttura finanziaria delle imprese italiane è più sbilanciata verso l’indebitamento. È un tratto strutturale che dipendevanche dalla scarsa propensione delle imprese ad aprire l’azionariato a investitori esterni. Altri aspetti, di natura più congiunturale, vi hanno contribuito negli anni precedenti la crisi: condizioni di offerta del credito molto favorevoli e una marcata attenuazione, dal 2001, delle agevolazioni fiscali per gli aumenti di capitale previste dalla Dual Income Tax, poi abolita nel 2004. Il grado di leverage delle imprese è aumentato di oltre 10 punti percentuali dall’inizio dello scorso decennio, raggiungendo il 47 per cento nel terzo trimestre 2013, contro il 41 della Germania e il 31 della Francia.
2) Oneri finanziari che divorano i profitti
Alla crescita dell’indebitamento non ha corrisposto un rafforzamento della capacità delle imprese di sostenerne il costo: il rapporto tra oneri finanziari e margini lordi è progressivamente aumentato. Un maggior contributo del capitale nella struttura finanziaria delle imprese, oltre a renderle meno vulnerabili nelle fasi negative del ciclo, consentirebbe di finanziare più agevolmente progetti caratterizzati da rischi e rendimenti elevati come quelli legati all’innovazione e all’internazionalizzazione.
3) Incentivi all’aumento del patrimonio
Gli incentivi sono recentemente mutati nella giusta direzione. Limiti più stringenti alla deducibilità degli interessi pagati sul debito e la possibilità di dedurre, dal 2011, un rendimento figurativo dei nuovi apporti di capitale hanno in buona parte riequilibrato il trattamento fiscale del capitale di rischio rispetto a quello di debito. Le imprese non potranno che trarre vantaggio da questo mutamento di incentivi nelle loro scelte di finanziamento, anche se la difficile fase congiunturale ne rallenta gli effetti.
4) La Borsa per trovare capitali
Un segnale positivo emerge dal maggiore interesse per la quotazione in borsa. Dal gennaio 2013 si sono quotate oltre venti imprese italiane, il numero più elevato dal 2007; altre hanno annunciato l’intenzione di farlo. Le quotazioni hanno riguardato in larga parte società non finanziarie di piccole e medie dimensioni e si sono concentrate nel mercato alternativo del capitale (AIM), che ha costi di ammissione e requisiti regolamentari inferiori rispetto al mercato principale. Ampliare il ricorso al capitale richiede alle imprese un impegno ad accrescere la trasparenza dei bilanci e l’apertura a soggetti esterni.
5) Le banche devono accompagnare chi mette capitale
Proseguendo nel consolidamento della propria dotazione di capitale, le banche potranno assicurare un più adeguato sostegno finanziario alle imprese; è altresì importante per gli intermediari possedere un’attitudine nei confronti del credito legata alla qualità delle stesse imprese, al loro impegno a porre in essere i necessari processi di riorganizzazione. Per il finanziamento dei loro investimenti le imprese potranno inoltre ricercare nuove risorse da affiancare ai prestiti bancari. È nell’interesse delle banche favorire un più ampio accesso diretto delle imprese ai mercati del capitale, mirando a mantenere un rapporto equilibrato tra impieghi e depositi, condividendo con il mercato i rischi insiti nei finanziamenti alla clientela, evitando l’emergere di conflitti di interesse.
Semplice no? La finanza aziendale funziona così, basta mettere un po’ di capitale e tutto torna magicamente. Beh certo andava fatto 20 o 10 anni fa, quando le banche erano così generose ma non è mai troppo tardi, forza imprenditori tirate fuori il capitale! Dove lo avete messo? Nel mattone? Ah, questo è un piccolo problema perché liberarsi del mattone e trasformarlo in capitale da mettere in azienda adesso è un po’ complicato e non trovate più banche disponibili a sostenere questo spostamento. Loro, le banche hanno gli immobili che gli escono fuori dai bilanci e dagli occhi.
Anche le banche dicono con convinzione che gli imprenditori devono mettere mano alle loro tasche e riserve, lo ha detto questa mattina anche il presidente della Popolare Sondrio Melazzini alla sua assemblea, lo dice spesso il presidente dell’ABI Patuelli. Lo dicono tutti i banchieri/bancari in coro. Adesso.
Magari il capitale c’è e lo avete tenuto gelosamente nascosto e adesso si può andarlo a prendere. Speriamo che sia così.
Io sul capitale nascosto delle piccole imprese artigiane non farei troppo affidamento. Mi sembra che le riserve accantonate negli anni se ne siano già andate. E loro i micro-imprenditori la Borsa la vedono solo con il binocolo. Credo che rimarranno appesi alle loro banche sino a quando, avendo capito che fare troppi debiti non è stata una grande idea anche se era bello dedurre gli interessi dalle tasse, impareranno a fare impresa senza fare debiti con le banche.
Articolo ripreso da linkerblog.biz – autore: Bolognini F.