Bettino Craxi grande statista italiano

Morì quasi di sorpresa il Cinghialone, quel 20 gennaio 2000, lasciando l’amaro in bocca ad un nutrito esercito di “indignati” dell’epoca, che perdevano all’improvviso il comodo capro espiatorio e l’alibi perfetto per non dover fare i conti con se stessi e la propria storia. Era diventato Bettino Craxi nell’immaginario collettivo e in un certo furore popolare il paradigma di tutti i mali, la facile sentina dove scaricare lo schifo generalizzato per la corruzione della politica, per le ruberie diffuse di una intera classe dirigente, per la perdita di una complessiva dignità nazionale.

Che la corruzione ci fosse, che la politica fosse inquinata fino alle radici, che il Paese manifestasse il disgusto e la stanchezza e il desiderio impetuoso di voltare pagina non è più onestamente discutibile. Eppure tutta la vicenda tumultuosa ed insieme opaca di Mani Pulite e della sovraesposizione mediatica della magistratura vendicatrice dimostra oggi, soprattutto a sinistra, che non basta il moralismo selettivo (e spesso farisaico) a salvare un Paese e cambiarlo in modo da consentirgli di affrontare le sfide difficili di una complicata modernità. La corruzione non è estinta, ma semmai prospera in forme più sofisticate nella realtà pubblica e nell’amministrazione dello Stato, la politica si è rivestita di privilegi e di sprechi ormai intollerabili, l’evasione fiscale di massa sono la spia evidente di un rapporto irrisolto tra cittadini e istituzioni sempre più invecchiate e inadeguate.

Craxi l’Antipatico moriva, esule o latitante, in quel di Hammamet. E al di là delle tangenti e delle vicende giudiziarie, finiva schiantato sul terreno politico dalla sua colpa più grave e per la sinistra intellettuale del tutto imperdonabile: quella cioè di aver avuto per primo ragione, la ragione che attribuisce solo la Storia.

Infatti, la competizione feroce che aveva ingaggiato a sinistra contro gli emissari e i sostenitori della dittature comuniste dell’Est, collocando senza incertezze il suo partito nell’ambito dell’Occidente e nel concerto delle socialdemocrazie europee, si era dimostrata l’unica strada vincente. E il tracollo del comunismo, con la caduta del Muro, lo poneva nel contesto internazionale come l’unico leader persuasivo di una versione italiana di democratica sinistra moderna. Non è avvenuto così (e per approfondire il solco ci aveva messo del suo), ma da questo radicale rigetto la sinistra nostrana non si è più risollevata, costretta ad inseguire e a contaminarsi con altre culture e a costituirsi come comprimaria o caudataria di altre leadership (a cominciare da Prodi o da chi magari spunterà nei mesi a venire).

Perché l’infrequentabile Bettino aveva a suo modo un’idea dell’Italia (e garibaldina fino al punto da resistere da Palazzo Chigi agli americani nel blitz di Sigonella) ed era persuaso della necessità di un cambiamento dell’architettura istituzionale. Quando “riformista” era una parolaccia per gli intellettuali alla moda (poi riformisti alla lunga lo diventeranno tutti), lanciò l’intuizione non solitaria della Grande Riforma del sistema politico che modificasse la catena di comando dell’esecutivo e snellisse la struttura barocca e ripetitiva del funzionamento dello Stato. Fu allora fermato (come peraltro tutti i progetti riformatori con altri e diversi padri) dall’immobilismo interessato delle tante corporazioni conservatrici che ancora oggi si nascondono sotto il rispettabile mantello dei parrucconi sacerdoti della sacralità costituzionale.

Craxi fu il più deciso e il più sconfitto degli innovatori. Travolto dal ludibrio delle monetine e dall’arroganza predatoria della sua corte, finì proprio male. Domani i suoi orfani politici (anche quelli che lo lasciarono solo) lo onoreranno in memoria: ma forse sono i suoi avversari di allora, in un bagno di verità, a dover fare finalmente gli onesti conti con lui.

 

Articolo ripreso da linkiesta.it