Quattro paesi che bene o male dipendono tutti dalle materie prime e che probabilmente subiranno ulteriori conseguenze prima della stabilizzazione del mercato. I prossimi mesi saranno decisivi per il loro sviluppo.
Emergenti, emersi o in rallentamento? Stando all’ultima ondata di report delle banche d’affari, soprattutto anglosassoni, diffusi nell’ultima settimana borsistica, sembra che i Bric – acronimo coniato un decennio fa dal capo economista di Goldman Sachs, Jim O’Neill, che indica Brasile, Cina, India e Russia – non corrano più come in passato. È il lato meno scintillante della globalizzazione economica, e una smentita di quanti ritenevano i Bric immuni, o per usare un termine da economisti “decorrelati (decoupling)”, dalle disgrazie finanziarie di Europa e Stati Uniti. Tra i quali, ironia della sorte, va annoverato proprio Jim O’Neill, che nel 2009, sulle pagine di Newsweek, spiegava: «Chi ha detto che il decoupling è morto? L’idea della decorrelazione si basa sul fatto che i Bric continuino ad incrementare la loro dipendenza dalla domanda interna, continuando a crescere anche se i loro più importanti mercati in termini di export, come gli Usa, rallentassero drammaticamente».
Era il 20 marzo 2009, e oggi ci siamo. Anche se, tecnicamente, di recessione non è possibile parlare, in quanto si ha dopo due trimestri consecutivi di crescita negativa del Pil. Prendendo con il beneficio del dubbio le previsioni delle banche in questione, i trascinatori dell’economia mondiale potrebbero pagare cara la crescita zero di Europa (+0,2% il Pil aggregato relativo al secondo trimestre) e il tiepido primo semestre dell’anno degli Usa (Pil a +0,4% nel primo e +1,3% nel secondo trimestre 2011).
La prima a puntare i riflettori sul mercato «pericolosamente vicino alla recessione», come titolava il report diffuso due giorni fa, è stata Morgan Stanley, la cui revisione al ribasso delle stime di crescita del Pil globale non ha, per l’appunto, risparmiato il Brasile, che passa da +4,6% nel 2012 della precedente rilevazione al 3,5%; l’area asiatica escluso il Giappone (principalmente Cina, India, Singapore, Malesia, Hong Kong), che aumenterà il Pil aggregato del 7,6% nel 2011 e del 7,3% nel 2012, rispetto ai precedenti +7,7% +7.8%, per 2011 e 2012. Anche Deutsche Bank, ieri l’altro, ha abbassato da 9,1% a 8,9% le stime sul Pil 2011 del Dragone, e dall’8,6% all’8,3% quelle sull’anno prossimo.
Sebbene si tratti comunque di percentuali fantascientifiche, se viste da una prospettiva europea (così come i loro livelli d’inflazione, che viaggiano tra il 5 e il 7% l’anno), il giudizio di una banca tedesca su Pechino ha un certo peso, essendo la Cina il principale mercato di sbocco per le esportazioni dei campioni nazionali di Berlino, da Siemens a Bmw. Male anche la Russia: gli economisti di Morgan Stanley hanno ridotto dello 0,3%, tanto per il 2011 che per il 2012 i numeri del Pil di Mosca: da 5 a 4,7% per quest’anno e dal 5,5 al 5,2% l’anno prossimo. Tra le motivazioni addotte, il calo del Pil nel secondo trimestre dell’anno, +3,4% rispetto al +4,1% del periodo gennaio-marzo 2011, e l’ancoraggio dell’economia russa al prezzo del petrolio, che continua la sua discesa verso i 100 dollari al barile per il Brent europeo e gli 80 dollari per il Wti statunitense. Un livello, quest’ultimo, “pericolosamente vicino” a quello toccato dall’oro nero nell’agosto 2007, quando la banca francese Bnp Paribas annunciava la sospensione di tre fondi legati ai mutui subprime.
I governanti dei Bric l’hanno presa con filosofia. Il presidente brasiliano, Dilma Rousseff, ha dichiarato: «È ovvio che la crisi ha un effetto nel Paese», specificando che «Il nostro obiettivo è, in ogni momento, fare in modo che il Brasile non risenta degli effetti perversi di una crisi che non abbiamo creato noi». In India, il premier Manmohan Singh ha puntato l’attenzione sulle riforme dei mercati finanziari e delle assicurazioni alla vigilia del probabile aumento dei tassi d’interesse al 9,2% – per dare un termine di paragone, quelli della Bce sono all’1,25% – nel prossimo piano quinquennale 2012-2017. Nessun commento è arrivato dal Cremlino, mentre l’agenzia stampa cinese Xinhua ha diffuso oggi una ricerca condotta dagli economisti dell’Università di Xiamen e della National University di Singapore, secondo cui «se gli Usa eviteranno una nuova recessione e l’Europa troverà il modo di risolvere la crisi del debito, l’economia cinese crescerà del 9,28%». In caso contrario, si assesterà tra l’8 e il 9 per cento.
Articolo ripreso da linkiesta.it