La crisi del debito pubblico continua a creare forti tensioni sui mercati finanziari internazionali.
Si rivedono al ribasso le stime di crescita e il timore di una nuova recessione diventa concreto. In questi giorni si cercano chiarimenti e magari qualche rassicurazione. Fare previsioni non è facile, perché le variabili in gioco sono molte. Possiamo però analizzare alcuni aspetti specifici e indicare le conseguenze delle diverse scelte possibili per governi e istituzioni internazionali. Attraverso un Dossier che cerca di rispondere ai vostri quesiti.
Tutti vorremmo sapere come andrà a finire la crisi del debito pubblico. Vorremmo essere rassicurati sul fatto che non ci sarà una nuova recessione. Ma non abbiamo la sfera di cristallo per indovinare quali decisioni prenderanno le organizzazioni sovranazionali e i governanti dei diversi paesi, cosa faranno le banche centrali, come reagiranno le borse e le opinioni pubbliche. Possiamo, invece, abbozzare scenari e rispondere su aspetti specifici. Decine di domande di questo tipo ci giungono quotidianamente dai lettori de lavoce.info, attraverso e-mail e commenti agli articoli pubblicati. Abbiamo deciso di raccogliere le più significative e interessanti e di dare risposte formulate dai redattori de lavoce.info con un linguaggio quanto più possibile chiaro e semplice.
Domanda. Negli ultimi tre anni abbiamo visto saltare banche nei maggiori paesi, ma non in Italia. Esiste oggi il rischio fondato che qualche nostra banca cada nell’insolvenza?
Risposta. Va detto che dopo il disastro causato da Lehman Brothers, è da escludere che si arrivi al fallimento di altre banche. Dunque, il rischio che qualcuno “salti” in Italia come in altri paesi, è molto basso. Detto questo però va ricordato che:
a) le banche italiane erano sicuramente più robuste delle altre al momento in cui la crisi è scoppiata (ormai quattro anni fa) ma da allora molte cose sono cambiate.
b) Stiamo assistendo ad una recrudescenza della crisi. Chi si era illuso che il peggio fosse già alle spalle, si è dovuto ricredere. Il recente rapporto sulla stabilità finanziaria del Fondo monetario internazionale ha affermato che gli indicatori di rischio e di fragilità sono tornati a salire, come non accadeva dai tempi di Lehman (ottobre 2008).
c) L’economia mondiale sta rallentando e qualcuno teme addirittura una recessione: ciò naturalmente amplifica i problemi finanziari.
d) Il problema centrale oggi è la crisi europea: il timore di un default della Grecia (ma anche di Portogallo e Irlanda) ha determinato il “contagio” all’Italia e alla Spagna. Sono quindi saliti i differenziali di tasso (spread) richiesti dagli investitori per comprare titoli pubblici di questi paesi. Gli spread italiani si trovano ormai da due mesi sopra i 3,5 punti. Lo Stato italiano paga cioè, per i nuovi debiti, 3,5 punti più della Germania (che paga invece meno di 2).
e) In questa situazione le banche si trovano in grande difficoltà per due motivi. Vedono aumentare le perdite sui titoli posseduti (i vecchi titoli valgono meno perché sono disponibili altri con tassi superiori) e devono sopportare costi di raccolta che salgono proporzionalmente all’aumento degli spread del Tesoro.
f) Gli spread italiani sono oggi superiori a quelli spagnoli (non era così fino ad agosto) perché la manovra italiana di aggiustamento dei conti è stata confusa, incoerente e poco credibile.
g) Le banche italiane oggi non sono molto più fragili di altre (le francesi, ad esempio, che sono anch’esse nell’occhio del ciclone in questi giorni) ma scontano l’effetto congiunto della crisi europea e dell’incapacità di crescita del paese.
g) La soluzione del problema passa per interventi finalmente risolutivi in Europa che riescano ad arginare una crisi che rischia di travolgere l’euro e l’intera costruzione europea. Ma anche per un’azione di governo capace di rilanciare finalmente un’economia che negli ultimi 12 anni è cresciuta complessivamente solo del 2,7 per cento e che, secondo le previsioni del Fondo monetario, accumulerà altri due punti di ritardo nei prossimi due anni. Non ci possono essere banche robuste in un’economia stagnante.
Marco Onado
Domanda. Anche se i tedeschi sono ferocemente contrari, aumentare la liquidità e abbassare la quotazione dell’euro potrebbe giovare all’economia europea?
Risposta. Una svalutazione dell’euro aiuterebbe la competitività dell’industria europea, soprattutto quella delle aziende che hanno costi in euro cioè che usano poche materie prime e tanto lavoro. Quindi se l’euro si deprezza ma non crolla, è una buona notizia. Peraltro, l’eventuale mossa della Bce potrebbe essere vista semplicemente come una reazione a una mossa analoga già in atto da tempo da parte della Fed che da quando ha inaugurato i suoi piani di Qe (quantitative easing) sta di fatto mantenendo basso il valore del dollaro a spese di tutti gli altri paesi del mondo. Le mosse coordinate di Fed e Bce solleverebbero la (legittima) protesta dei paesi emergenti che già da tempo si lamentano della strisciante aggressione valutaria degli americani.
Francesco Daveri
Domanda. Sarebbe auspicabile che la Cina comprasse debito Italiano?
Risposta. Certo, sarebbe auspicabile. Ma i cinesi sono troppo furbi per farlo. In realtà vogliono comprare, ma il 30 per cento dell’Eni, non una promessa del Tesoro italiano.
Francesco Giavazzi
Domanda. Su cosa si fonda la legittimazione (anche nei regolamenti del mercato finanziario) delle agenzie di rating? Su cosa si fonda la loro credibilità, visto che hanno sballato clamorosamente (vedi i titoli Lehman)? Le loro valutazioni non sono per lo più arbitrarie?
Risposta. Storicamente le agenzie di rating nascono per esprimere il grado di rischio delle obbligazioni, cioè per svolgere in qualche modo la funzione di valutazione di affidabilità che nel finanziamento bancario viene assolto dalle banche. Nel corso del tempo, sono state introdotte alcune forme di regolamentazione prudenziale (ad esempio nel caso dei fondi pensione) che hanno imposto a investitori istituzionali di investire in strumenti che superino un certo rating, e che dunque non siano “troppo rischiosi”. Questa regola è pensata per garantire che il patrimonio di queste aziende sia solido. Le valutazioni sulla rischiosità dei prodotti finanziari vengono affidate alle agenzie di rating. Quindi le regolamentazioni danno in qualche modo legittimazione al loro operato e le rendono così centrali in alcuni mercati finanziari: se un titolo (un buono del Tesoro, per esempio) non ha un alto credit rating, esso non sarà appetibile per le imprese che sono obbligate ad avere una minima quota, per esempio, di titoli AAA.
Ma le agenzie di rating fanno un buon lavoro? La questione è complessa, ma ecco il mio giudizio in poche parole. Le agenzie di rating non dicono (di solito) molto di più di quanto i mercati non sappiano già. Mi spiego con un esempio. In molti casi le agenzie di rating valutavano la volatilità di una obbligazione in base alla media storica delle fluttuazioni del titolo. Chiaramente questo non è un modello di valutazione molto sofisticato, e in particolare sottostima la possibilità di una crisi sistemica nuova, come quella che abbiamo vissuto e stiamo vivendo. Insomma, in molti dei casi il servizio delle imprese di rating è stato e continua ad essere più meccanico delle loro controparti nel settore privato (“buy side” analyst).
È ragionevole aspettarsi molto meglio? Realisticamente, no. La ragione fondamentale è che le agenzie di rating non hanno capitale a rischio: se il loro analista fa un errore di valutazione, Moody’s non perde soldi. Né ci guadagna se la valutazione è corretta. E quindi, ci si può aspettare che Moody’s abbia informazione migliore di chi mette i soldi a rischio? Detto diversamente, se un analista di Moody’s avesse davvero più informazione di quella già incorporata nei prezzi, allora lui -o lei- farebbe molti più soldi investendo per conto proprio che lavorando da Moody’s.
Nicola Persico
Domanda. È concepibile l’abbandono dell’euro da parte di un paese? In che modo e a quali costi avverrebbe la conversione dall’euro alla nuova/vecchia valuta?
Risposta. Rispondiamo riportando un estratto dal paper di Willem Buiter e Ebrahim Rahbari “The future of the euro area: fiscal union, break-up or blundering towards a ‘you break it you own it Europe’” pubblicato da Citi Investment Research & Analysis.
Una rottura dell’area euro è molto improbabile, ma non impossibile. L’interpretazione prevalente dei Trattati sostiene che per un paese è possibile abbandonare l’Eurozona solo se contemporaneamente abbandona anche l’Unione Europea. Ovviamente, i Trattati europei si possono sempre rivedere.
Neanche la possibilità d’espulsione di un paese è prevista dai Trattati. Tuttavia, è possibile che, collettivamente, sedici paesi dell’area rendano molto difficile la vita per il diciassettesimo, tanto che il miglior piano di azione per la vittima potrebbe essere l’abbandono dell’area. un rifiuto della Bce di continuare a concedere finanziamenti alle banche greche accettando debito sovrano o debito sovrano garantito come garanzia, potrebbe rappresentare un punto di rottura di questo tipo.
Qualunque siano le modalità scelte, l’uscita dall’Eurozona sarebbe comunque una questione molto complessa. È assai improbabile che si possa prendere in considerazione uno scenario nel quale uno Stato membro dell’area “si prende una vacanza” dall’euro per un paio di anni, adotta temporaneamente la sua vecchia moneta e ottiene un forte deprezzamento del valore di questa stessa valuta per poi tornare nell’area euro con il tasso di cambio più competitivo. Il paese in questione dovrebbe chiedere di nuovo l’adesione all’Unione Europea e, nel caso la richiesta fosse accolta, dovrebbe soddisfare nuovamente i parametri di Maastricht per rientrare a far parte dell’Eurozona. È anzi probabile che gli Stati membri effettivi cercherebbero di applicare criteri ancora più rigidi di quelli originali di Maastricht e sarebbero più attenti nella ricerca di eventuali “trucchi” che possano aver permesso il precedente ingresso nell’area euro.
È importante sottolineare che è possibile il default pur rimanendo all’interno dell’Eurozona. La proposta di un buy-back prente nel secondo pacchetto di salvataggio della Grecia concordato al vertice di emergenza dell’Unione Europea del 21 giugno implica un giudizio di “default selettivo” sul debito sovrano greco da parte di Standard&Poor’s. Un fallimento ha costi e benefici che dovrebbero essere tenuti ben distinti dalla questione dell’uscita dall’Eurozona. Un approccio indirizzato a ristrutturare i livelli eccessivi di debito sovrano, accompagnato da una ristrutturazione del debito bancario e da una ricapitalizzazione delle banche e dalle necessarie riforme strutturali può rappresentare il catalizzatore di migliori prospettive di crescita per il futuro.
Inoltre, se per esempio la Grecia uscisse dall’area euro, ci sarebbe la necessità di introdurre una nuova moneta. Così oltre a tutti i numerosi problemi che il cambio di valuta comporterebbe, avremmo anche il costo dell’introduzione di nuove banconote e monete con i connessi costi di distribuzione. E sono da considerare anche i costi del passaggio a un diverso numerario nei contratti e nei pagamenti: per le transazioni finanziarie wholesale questi costi sono probabilmente bassi, ma per milioni di famiglie e piccole imprese il costo del cambiamento del numerario nelle fatture, nella contabilità, nei bilanci eccetera può rivelarsi per niente banale.
La Grecia ha avuto a disposizione un decennio per introdurre l’euro, potrebbe avere solo pochi mesi per l’introduzione della Nuova Dracma.
Domanda. Perché la Fed mantiene i tassi a zero, mentre la Bce li tiene a 1,5? Quali sono le implicazioni e i rischi delle due politiche?
Risposta. La Fed e la Bce hanno due mandati diversi: la Bce è vincolata dal suo Statuto a una politica monetaria che ha come obiettivo primario la stabilità dei prezzi; ciò non vale per la Fed. Di conseguenza, la banca centrale americana ha una strategia più flessibile e discrezionale. Può permettersi quindi una politica molto espansiva per un lungo periodo di tempo.
Vi è da dire che la politica monetaria della Bce non può dirsi restrittiva, con tassi d’interesse del mercato monetario negativi in termini reali. La maggiore flessibilità della Fed riguarda non solo la gestione del tasso d’interesse di policy, ma anche le cosiddette politiche “non convenzionali”, come l’acquisto di titoli del debito pubblico sul mercato. La banca centrale americana è stata finora molto più aggressiva su questo fronte; la Bce si è mossa con maggiore prudenza. La politica della Fed viene incontro alle esigenze di stabilizzazione dei mercati finanziari, sostenendo le quotazioni dei titoli; non sembra invece avere molto successo nel sostenere l’economia reale e nel ridurre la disoccupazione. Il rischio principale di questa politica è generare un’altra “bolla” dei prezzi delle attività finanziarie; questa bolla potrebbe scoppiare quando prima o poi il sostegno artificiale ai prezzi dei titoli verrà meno.
La politica della Bce cerca di evitare questo rischio, oltre che di non compromettere l’obiettivo di lungo periodo della stabilità dei prezzi. Tuttavia, nelle circostanze estreme in cui si trova attualmente la zona euro, essa potrebbe rivelarsi troppo rigida. Soprattutto in mancanza di politiche fiscali adeguate e di provvedimenti di sostegno agli Stati ad alto debito, a causa dei blocchi decisionali a livello europeo, la salvezza dell’euro potrebbe risiedere nella capacità della Bce di acquistare in dosi massicce titoli di stato, a costo di immettere molta (troppa) moneta nel sistema economico. Ma la Bce potrebbe rifiutarsi di seguire questa strada: i pur limitati acquisti effettuati finora hanno generato forti tensioni nella Bce stessa (che hanno condotto alle dimissioni dei tedeschi Weber e Stark dal consiglio direttivo della banca).
Angelo Baglioni
Domanda. Perché non utilizziamo la “bad bank”, come si è fatto per risolvere alcuni casi di dissesti bancari, anche per risolvere il problema del debito greco?
Risposta. La soluzione della “bad bank” prevede tipicamente che una banca insolvente venga spezzata in due. Una mantiene in bilancio le attività “sane” e può continuare a operare sul mercato. L’altra (la “bad bank”, appunto) si accolla le attività che valgono poco sul mercato; in altri termini si accolla le perdite. Per sopravvivere, la “bad bank” ha bisogno del sostegno pubblico, che interviene ripianando le perdite e immettendo capitale; di fatto lo stato diventa proprietario della “bad bank”, sperando di poterla rivendere in tempi migliori (quando, eventualmente, i suoi asset avranno recuperato almeno una parte del loro valore).
Questa soluzione non può essere applicata a uno stato sovrano. Non esiste un’autorità al di sopra dello stato insolvente che possa intervenire e spaccare in due lo stato stesso, divenendo in sostanza proprietario della entità “cattiva” e lasciando autonoma la parte “buona”.
Angelo Baglioni
Dossier/articolo ripreso da lavoce.info