L’ aumento dell’automazione renderà inevitabile l’adozione di un reddito universale. A quel punto l’unico modo di sopravvivere del capitalismo come lo conosciamo oggi sara’ di tentare di imporre una tassazione globale sui robots e sui prodotti da essi sviluppati.
Noi non pensiamo che ci riuscirà e che quindi si avvierà verso la propria fine ma, nel dubbio, ecco alcuni contributi su questo interessante dibattito.
Qualche temp fa Bill Gates ha proposto che l’impiego dei robots nelle attività produttive venga tassato, e che i proventi dell’imposizione vengano utilizzati per finanziare la formazione dei lavoratori disoccupati dai quei robots. L’idea è, ovviamente, ridicola: tassare il progresso tecnico!? Qualcuno, non ricordo più chi, ha detto che siamo grati agli inventori per quello che hanno inventato, ma sarebbe bene che poi lasciassero certe discussioni ad altri. L’idea è stata accantonata, con motivazioni solide e la classe che gli è propria, da Lawrence Summers. Altri hanno però sviluppato sviluppano un ragionamento che provo a snocciolare.
1. Il ‘problema dei robots’ è il problema che pongono tutte le forme di automazione e meccanizzazione: essi inducono nel processo produttivo aumenti importanti di produttività. A questo livello di astrazione i robots non sono in nulla diversi dalle macchine a vapore o dai telai meccanici di secoli addietro: sono, cioè, progresso tecnico che consente di risparmiare lavoro a parità di prodotto. In linguaggio meno forbito, distruggono posti di lavoro.
2. Tradizionalmente, il ragionamento sul ‘come’ riassorbire la forza lavoro eccedente ha avuto, come sempre in cose economiche, due classi di risposte diverse. La prima, la risposta dei credenti nel libero mercato, prevedeva che i lavoratori disoccupati, o loro equivalenti, sarebbero stati riassorbiti in parte nella fabbricazione delle diavolerie tecnologiche che ne avevano prodotto la disoccupazione e, in parte, nei nuovi lavori, nelle nuove ‘professioni’. Il che richiede formazione, certo, ed è proprio questo su cui tutti sono d’accordo (tranne gli imprenditori italiani, che spendono in formazione per dipendente un terzo di quello che spendono i loro equivalenti belgi).
3. Ma c’è un ‘ma’. Il ragionamento sub 2 può essere appropriato, almeno in via di principio, in tempi ‘normali’, quando il ritmo del progresso tecnico è, diciamo così, non tumultuoso. Ma se tumultuoso lo è? L’ economista Corso presuppone proprio che questi presenti siano tempi di cambiamento tumultuoso, radicale, vasto, disruptive credo si dica. Che si fa in queste condizioni? Come si governano un’economia e una società in cui la disoccupazione cresce a ritmi eccezionali e, una volta cresciuta, non viene riassorbita dal normale ciclo della ripresa?
4. Da ottant’anni a questa parte la risposta intelligente a questo quesito è stata: forzare la ripresa, alimentare la domanda di beni e servizi mediante la spesa pubblica, oggi si direbbe ‘in infrastrutture’ ma, ovviamente, l’indennità di disoccupazione fa sempre parte del pacchetto di rilancio della domanda e dell’attività produttiva. Non resta poi che pregare che ci sia una classe imprenditoriale capace di riconoscere i venti del cambiamento, accettare la sfida delle aspettative in miglioramento, lanciandosi in progetti che tornino pian piano a dare all’intrapresa privata quel ruolo che da secoli le riconosciamo.
5. Ma sappiamo bene che le questioni economiche hanno dimensione e significato soltanto in quanto concepite e pensate in un contesto sociale. Ed ecco che siamo allora al punto cruciale del ragionamento: come si fa quando la disoccupazione tecnologica irrompe sulla scena, ma le politiche keynesiane di contrasto-cum-rilancio vengono rifiutate dai governanti in nome dei bilanci in pareggio, come rifiutate sono da dieci anni ormai in Europa (e con gli Usa che si stanno avviando sulla stessa strada)? Non sarà bene aprire gli occhi e vedere la combinazione mortale di progresso tecnico rampante e Stato assente? E poi, dice Corso per buona misura: non dovremmo vedere che viviamo in una società in cui la distribuzione del reddito è paurosamente diseguale, con i ricchi che risparmiano e i poveri che non consumano? A che cosa serve tutto questo aumento di produttività se non ad una vita migliore? Dice: si, ma la produzione verde…. Ma per piacere, rispondo io, guardati attorno, guarda le strade di Milano che sono diventate un dormitorio, non mi parlare di verde, una cosa che apprezziamo tu e, forse, io. E poi, non sono mica in contraddizione ambiente e dignità umana, o no?
6. Ultimo anello della catena: il salario di cittadinanza. Su questo concetto di ‘salario di cittadinanza’ il dibattito infuria. La destra argomenta che la proposta è irragionevole su tre livelli: 1. che i bilanci pubblici sono già in difficoltà (te pareva!), 2. che un reddito possa non essere dipendente dall’erogazione di uno sforzo lavorativo (ma allora nessuno lavorerà più, poffarbacco!); e 3. che il finanziamento venga da una redistribuzione del reddito di larga portata che intaccherà, ovviamente e principalmente, redditi e ricchezze veramente consistenti. La sinistra, d’altro canto, si affanna a scrivere libri, mostrare logiche ferree e delineare utopie realistiche, studiare e descrivere esperimenti finlandesi (niente di meno).
Concludo. Non stiamo vivendo tempi facili. Il progresso tecnico di tipo labor-saving avanza in fabbrica, negli ospedali, nei supermecati, negli studi professionali, tra i camionisti. I governi non lo vedono o, se lo vedono, ignorano. Il nostro / i nostri più di qualunque altro. Incontrastata, la disoccupazione avvelena la nostra società e toglie dignità alle persone. E’ tempo di grandi cambiamenti economici.
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