Oggi, in un mondo imprenditoriale che ha scoperto l’importanza della comunicazione istituzionale ed in presenza di una forte fungibilità delle merci, si stanno imponendo, nelle pratiche aziendali, politiche e strumenti più attenti alla comunicazione di impresa che a quella di prodotto, tipica del periodo del consumismo e del post-consumismo.
Non si può, però, nemmeno affermare che viviamo nell’era del consumerismo, anche se si può senz’altro sostenere che esso sia presente nell’orientamento dei consumi delle fasce più acculturate con un dato di tendenza crescente.
Ma ecco cosa sta cambiando lo scenario: la Rete. Rete che crea, a loro insaputa, internauti consumeristi che contribuiscono a divulgare vissuti positivi o negativi di un marchio rendendoli così virali. Un esempio per tutti: il lunedì successivo alla trasmissione della Gabanelli sulle oche maltrattate di Monclair il titolo perdeva in borsa ben il 5% e di conseguenza dovette essere sospeso.
Certamente oggi il cliente-consumatore comincia a sviluppare un radar con il quale monitorare-razionalizzare gran parte dei propri comportamenti tarandoli, oltre che sulla propria cultura e sul proprio stile di vita, anche su contingenze economiche alle quali non era abituato.
Pertanto viene meno preso in considerazione il messaggio esclusivamente persuasivo e viene posta maggior attenzione a quello informativo sul prodotto e sull’azienda.
Se si accetta la definizione che la comunicazione d’impresa ha l’obiettivo di ottimizzare la reputazione, a me come cittadino, interessa “entrare” in azienda per vedere la fascinazione del reale in termini di eccellenza per non sospettare che ciò che compero provenga da uno squallido capannone – magari con dentro ammassati bambini, donne e uomini schiavizzati – e che un messaggio costruito da abili pifferai e sostenuto da pesanti investimenti pubblicitari, lo abbia reso piacevole all’occhio anche se meno alla coscienza.
Ed ecco che l’entrare in azienda (virtuale o reale), il passare in rassegna le fasi storiche visitandone il “museo d’impresa” e il vedersi consegnato un libro – fatto bene – sulla storia aziendale non può che creare un legame di fidelizzazione, accompagnato da un sentimento di simpatia verso l’impresa.
Se in Italia c’è poca stima per le aziende non è per colpa di qualche astratta entità, come spesso si vuol far credere, ma delle stesse aziende che non hanno sviluppato atti coerenti ed investimenti con lo scopo di promuovere un atteggiamento positivo nei loro confronti.
Non posso dimenticare un caso eclatante di decenni fa: Montedison aveva lanciato un’importante campagna istituzionale in occasione del rifacimento del proprio marchio. Nello stesso periodo il suo presidente aveva problemi con la giustizia… il clima di ironia, che di conseguenza si diffuse, costrinse l’azienda ad interrompere la campagna. E’ passata molta acqua sotto i ponti ma ho la netta convinzione che siano poche le aziende che possano vantare una coerenza, tra etica e pratica, da “vendere” al pubblico con una “bella” campagna istituzionale.
Già nel 2007 ribadivo questa mia convinzione in un’intervista a Radio Telepace e dichiaravo che avrebbero dovuto piuttosto rimbrottare gli imprenditori per comportamenti eticamente poco responsabili – verso il benessere delle persone e della natura – invitandoli a porre maggiore attenzione verso la comunicazione istituzionale d’impresa come carta vincente per battere la concorrenza. Infatti se è vero che una campagna istituzionale non fa vendere nel breve termine, alla lunga orienta le scelte, soprattutto quando la differenza tra prodotti è scarsamente percepibile.
Inoltre dobbiamo considerare che le marcature di certificazione giocheranno, nell’ambito di questa tendenza, un ruolo sempre più importante nel futuro della comunicazione d’impresa e che gli organismi preposti al loro rilascio dovranno essere, di conseguenza, portatori di eccellenti credibilità e reputazione.
In un certo qual modo è quello che sta facendo OMI, Osservatorio Monografie Istituzionali d’Impresa, raccogliendo e monitorando le aziende che hanno messo su carta (e non solo) il loro passato, presente e futuro.
In futuro sarà la comunicazione istituzionale d’impresa a far la differenza nella scelta di un prodotto/servizio e quindi la nascita di organismi pubblici o privati che aiutino tale processi è auspicabile.
Se la comunicazione istituzionale d’impresa “…si sovrappone e si sostituisce in parte alle funzioni di marca…” (Ugo Volli in Semiotica della pubblicità, Roma-Bari 2014) a conclusione di questa mia testimonianza e in piena sintonia con i principi della Crescita Felice, propongo una riflessione sul mio modo di pensare (coerentemente con i nuovi scenari) in merito a una classificazione semplice e dicotomica in Pubblicità Progresso (non quella della Fondazione) e Pubblicità Regresso.
Se la pubblicità serve ad informare in modo corretto ed eticamente compatibile potrà essere funzionale alla crescita felice e ne sarà un moltiplicatore. Così come una cattiva pubblicità avrà un ruolo di sottraendo per lo sviluppo sociale.
Un prodotto deve avere una funzione sociale: già nei primi del novecento qualcuno nell’ambito del marketing si poneva la domanda sull’opportunità di lanciare prodotti non necessari.
Fonte: monografieimpresa.it
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.