Per ogni euro investito in startup da un privato ce ne sono due messi sul tavolo grazie all’intervento pubblico. Ma sono investimenti o debiti?
Smart&Start e Fondo di garanzia per le Pmi, da settembre del 2013 ad oggi hanno permesso di smuovere 240 milioni di euro contro i 118 che nel 2014 sono arrivati da private equity, venture capital e business angel. Un rapporto destinato a diventare uno a quattro nel corso del 2015 con il nuovo bando di finanziamento Smart&Start partito a febbraio scorso che una disponibilità complessiva di 200 milioni. E ancora con il fondo di fondi annunciato per il 2015 da Cassa depositi e prestiti che ha una disponibilità da 50 a 150 milioni di euro. A questo si deve aggiungere il fondo di venture capital creato da Invitalia che metterà in circolo altri 50 milioni di euro destinati alle startup innovative da giugno 2015.
Indebitamento o investimenti?
Il paragone non riguarda solo la quantità di denaro messo in circolazione da soldi pubblici e soldi privati sulle startup italiane. Ma anche due diverse forme di finanziamento: indebitamento e investimenti nel capitale. Sia Smart&Start che il Fondo di garanzia per le Pmi si basano infatti su un sistema di finanziamento che non ha effetti sulla proprietà ma solo sull’indebitamento. Tutto il contrario degli investimenti in equity, fatti dai privati che nelle startup mettono soldi, ma poi entrano di diritto nei consigli d’amministrazione. Cosa che nella cultura delle imprese italiane (tradizionali o innovative che siano) stenta ancora a farsi strada.
Un fenomeno che conosce bene Adam Kostyá, responsabile per le quotazioni delle società tecnologiche europee per il Nasdaq. All’Arctic 15 di Helsinki ha detto a StartupItalia! che al nostro paese «serve un radicale cambio culturale: le imprese del sud Europa devono capire che cedere quote azionarie non è un male. Ma è una spinta ad una crescita più rapida, che è quello che serve alle startup per conquistare il proprio mercato di riferimento».
Una startup su 10 ha chiesto aiuto al Fondo di garanzia
Dal 2013 il Mise dà la possibilità alle startup di accedere al Fondo di garanzia per le Pmi in maniera agevolata. Basta essere una startup innovativa o un incubatore certificato iscritto nella sezione speciale del Registro delle imprese e che il soggetto finanziatore non acquisisca alcuna garanzia, reale, assicurativa o bancaria sull’operazione finanziaria.
Ciò ha permesso alle giovani imprese innovative – secondo i dati diffusi dal Mise – di poter usufruire di 172 milioni di euro di finanziamenti bancari che sono stati concessi a 388 startup con un importo medio di poco superiore ai 325mila euro. Praticamente è stata finanziata una startup su dieci, visto che attualmente in Italia ce ne sono 3.925. Alcune di queste hanno ricevuto più di un prestito, considerando che il numero totale di finanziamenti è di 526. Vanno meglio i risultati degli incubatori. In questo caso la percentuale raddoppia, passando dal 10 al 20%, visto che hanno usufruito della garanzia del fondo 6 realtà sulle 31 presenti in Italia, quindi quasi una su cinque.
Ma come funziona questo strumento? I soldi li mettono le banche. E se una startup (o un incubatore) non è in grado di restituirli? Arriva la garanzia dello Stato, sulle cui spalle in caso di “problemi” ricade la restituzione dell’80% del prestito (attualmente quindi poco più di 135 milioni su 172 erogati). Mentre alla startup resta da pagare solo il 20%, che di fatto è la la quota a cui devono rispondere personalmente i founders. La regione in cui le startup hanno preso in prestito più denaro è la Lombardia con oltre 80 milioni di euro di debito, mentre in Umbria ci sono stati i finanziamenti più importanti: su solo 4 operazioni ricadono oltre 4 milioni di euro. La Basilicata è l’unica non pervenuta. Qui l’elaborazione grafica dei dati regione per regione.
Quanto ha investito finora Smart&Start
La prima tranche di capitali messi in circolo nel 2014 grazie al bando Smart&Start è stata di 68 milioni euro di cui 32 in Campania, 15 in Sicilia e 12 in Puglia. Su 1.200 domande presentate, quelle finanziate sono state 368 con 2.767 neoimprenditori coinvolti. Questi, in breve, i numeri della prima edizione del bando Smart&Start, l’incentivo promosso dal Ministero dello Sviluppo Economico e gestito da Invitalia. La seconda edizione del progetto mette sul piatto altri 200 milioni per l’innovazione con finanziamenti per i singoli progetti che possono arrivare fino a 1,5 milioni di euro, partendo da un minimo di 100 mila euro. L’aiuto offerto dal bando Smart&Start è fondamentalmente di due tipi. Il primo è strettamente economico, trattandosi della concessione di un prestito. Il finanziamento è “agevolato” perché si rimborsa con interessi a “tasso zero” e può arrivare a coprire un importo pari al 70% delle spese o dei costi ammissibili dal bando (max 1.050.000 euro). All’agevolazione economica però si affianca, solo per le imprese nate da meno di un anno, anche un aiuto meno “materiale” ossia un servizio di tutoraggio tecnico-gestionale. Come per l’accesso al Fondo di garanzia per le Pmi, stiamo parlando di indebitamento e non di investimento in equity e quindi nelle quote della società.
Le cifre di private equity, venture capital e business angel
Quando si cominciano ad analizzare gli investimenti privati le cose cambiano e anche le misurazioni diventano più complesse. Non si tratta in questo caso di prestiti ma dell’acquisto di quote delle startup e quindi di ingressi nel capitale sociale delle stesse. Secondo i dati dell’Osservatorio Digital Innovation presentati al Gec 2015 di Milano, nel 2014 gli investitori istituzionali, i business angel, i family office e i venture incubator hanno investito nelle startup 118 milioni di euro (dato in contrazione rispetto ai 129 milioni del 2013). Qualche giorno dopo però, esattamente il 20 marzo, l’Aifi (Associazione Italiana del Private Equity e Venture Capital) presentando l’analisi sull’andamento dei soggetti che investono nel capitale di rischio delle imprese, ha reso noto invece che gli investimenti early stage (seed e startup) nel 2014 ammontano solo a 43 milioni di euro. Un gap che potrebbe in parte essere spiegato dal fatto che nella seconda statistica non rientrerebbero i fondi stanziati dai business angel e dalle agenzie finanziarie regionali.
I rischi degli investimenti pubblici in startup
Secondo Marco Bicocchi Pichi, membro del comitato esecutivo di Italia Startup, dai risultati del Fondo di garanzia per le Pmi viene fuori che «la promessa del governo ha funzionato, loro hanno fornito una strumento che le startup hanno effettivamente utilizzato». Il fatto che una startup su dieci abbia avuto accesso a un finanziamento bancario grazia alla garanzia dello Stato «è un dato significativo» perché bisogna considerare che «la stragrande maggioranza delle startup innovative ha meno di 10 mila euro di capitale sociale ed è abbastanza logico che queste non accedano a questo tipo di prestiti. Togliendo quindi queste dal conto, vedremmo numeri molto diversi«. Ma è su un dato che Bicocchi Pichi chiama a riflettere le startup: «la decisione di accendere un prestito è stata una scelta consapevole priva di azzardo morale o come ultima spiaggia?», aggiungendo che un buon benchmark in questo caso potrebbe essere quello di valutare qual è il rapporto debito/capitale delle startup oggetto dell’operazione di finanziamento, “sarei sorpreso negativamente se vedessi che una startup con 5 mila euro di capitale sociale interamente versato ne prenda 50 mila a debito”. Una sorta di regola di Basilea per le startup.
Per Roberto Magnifico di LVenture e InnovAction Lab, «una stima statistica che ci sia qualcuno che prende i soldi e poi fallisce c’è, ma non sarebbe giusto non mettere in moto un sistema che cerchi di aiutare il buono per colpa di quei pochi che non si comportano bene». L’intervento del Fondo di garanzia va visto quindi «come un volano che lo Stato sta cercando di mettere in azione per facilitare l’ingresso di attori come le istituzioni finanziarie in uno settore di mercato non è il loro. Li fa partecipare al rischio, con una quota minore, ma con una capacità di intervento che mette nel sistema 180 milioni di euro e facilita le microimprese in un Paese il venture capital fa fatica ad emergere con forza» conclude Magnifico.
Si fida della valutazione che mettono in atto le banche prima di concedere un finanziamento, Paolo Cellini, professore di marketing strategico alla Luiss, secondo lui le startup a cui sono stati concessi i finanziamenti bancari «già fatturano, altrimenti la banca non avrebbe dato loro i soldi». Quindi, in sostanza, non sarebbero startup. Che intervenga lo Stato, «non è negativo, non necessariamente» e comunque «resta più facile prestare che entrare in equity, per lo più se il finanziamento è garantito dallo Stato». Cellini ricorda che il rischio del prestito è diverso da quello di gestione, ma per crescere le società hanno comunque bisogno di capitale.
Face4Job: con quei soldi raddoppiato il valore dell’azienda
È quello che dice anche Alessio Romeo, ceo di Face4Job, che grazie al Fondo di garanzia per le Pmi ha avuto accesso a un prestito bancario di 500 mila euro: «il mio parere non può che essere positivo, questi soldi mi hanno permesso di andare avanti e di arrivare ad avere un’azienda che oggi vale due volte rispetto a quando non avevo questo debito».
Romeo però sottolinea anche che senza una forte presenza sul territorio, con un network giusto, «il prestito non l’avrei avuto neanche io, da solo non ce l’avrei mai fatta. Se fossi stato un ragazzo brillante di 25-26 anni non credo che l’avrei fatta». Cosa ha fatto con i soldi e perché ha scelto il debito e non l’equity? «Ne ho ancora metà, li ho usati per la parte dei costi legata allo sviluppo e alla comunicazione. Ho scelto il finanziamento bancario per tenere in mano l’equity , con questa operazione ho mantenuto la proprietà assoluta dell’azienda, ho soltanto rimandato l’eventuale operazione sull’equity e diciamo che mi è andata bene».
Articolo ripreso dal blog di StartupItalia – autori: A. Rociola – M. Furlo