C’è una sorta di mantra per il quale il modo “vincente” per risolvere il nodo del debito pubblico è solo quello di puntare sulla crescita del Pil: se io ho un debito di 160 ed un Pil di 100 vuol dire che il mio debito è il 160% del Pil, ma se il mio Pil diventa di 200 vuol dire che il debito, pur restando fermo, è diventato l’80% del Pil e se arrivo a 400 si è abbassato al 40%. Man mano, il gettito fiscale dovrebbe crescere in cifra assoluta così da permettere la graduale riduzione del debito e dei relativi interessi, per cui, già dopo i primi anni (sempre che non ci sia un ulteriore disavanzo statale da finanziare con nuovo debito) il capitale inizierebbe ad essere gradualmente rimborsato e, via via, ridotto. Semplice, logico, lineare.
In effetti, la crescita è uno degli elementi necessari in una strategia di azzeramento tendenziale del debito, però questo pone due problemi distinti ma connessi:
a- quali sono i limiti della crescita del Pil
b- in quanto tempo è possibile ridurre significativamente il debito.
Infatti, è evidente che non si può pensare in astratto ad una crescita illimitata, ma relativa ad una serie di fattori interdipendenti ed, in particolare, alla base di partenza ed alla popolazione. Infatti, se abbiamo un paese come la Cina degli anni Novanta, con un Pil intorno ai 3.000 miliardi di dollari ed una popolazione di circa 1 miliardo e 200 milioni di persone, un incremento del 10% nell’anno successivo significa, in cifra assoluta, un incremento di 300 miliardi di dollari, vale a dire un incremento di 250 dollari pro capite. Nell’anno successivo, un ulteriore incremento del 10% significa 330 milioni di dollari che, considerando in incremento demografico del 1,5% circa, significa un incremento pro capite, sull’anno precedente, di poco superiore.
Ma se consideriamo un paese come gli Usa attuali, con un Pil di circa 10.000 miliardi (per fare cifra tonda), una popolazione di 308 milioni di persone con un incremento demografico inferiore all’1,5%, significa che un incremento del 10%, sull’anno precedente, implica una crescita in cifra assoluta di 1.000 miliardi di dollari, con un incremento di 3.246 dollari pro capite.
Lasciamo da parte la questione del se il Pil sia un indicatore affidabile e sino a che punto. Qui ci limitiamo a segnalare che le ragioni di una sua possibile crescita sono molteplici: investimenti, andamento demografico, sviluppo tecnologico, ecc,. E’ ragionevole supporre che ad ogni aumento del Pil corrisponda un incremento, più o meno variabile, di consumi, di materie prime impiegate ed, in particolare di risorse energetiche ecc. Nel caso degli Stati Uniti, abbiamo un paese che ha già un consumo energetico annuo di 2.170 milioni di tep, leggermente inferiore a quello di 2.252 tep della Cina, ma con una popolazione di circa un quarto di quella cinese, Dunque un consumo di energia pro capite quasi quadruplo.
Pur non pensando ad una aumento di consumi energetici direttamente proporzionale all’incremento del Pil va da sè che il raddoppio del Pil americano (da 10.000 a 20.000 miliardi di dollari) implicherebbe un sensibile aumento di energia, per quanto si possa ricorrere a misure di contenimento (prodotti e processi a basso contenuto energetico, limitazione dei consumi individuali ecc), con conseguenti riflessi sul costo del petrolio ecc.
E dunque, non appare credibile che il tasso di crescita degli Usa possa superare di molto il quasi 2% attuale. Ma ipotizziamo che esso possa raggiungere il 4%, questo significa che per raddoppiare il Pil occorrerebbero 17 anni e mezzo, che è già un tempo molto lungo: pensare ad una serie ininterrotta di incrementi al 4% per 17 anni di seguito non è cosa facile, sia perchè è normale che possano esserci fluttuazioni sfavorevoli, sia perchè è ragionevole attendersi, in un periodo così lungo, qualche evento particolare che crei complicazioni negative. Inoltre, occorre tenere conto del saldo demografico tendenzialmente negativo per le società avanzate (anche se questo è più vero per Europa e Giappone che per gli Usa) e, sul lungo periodo questo non facilita le cose, introducendo un ulteriore fattore sfavorevole.
Nel caso degli Usa, inoltre, c’è da considerare un altro fattore negativo: l’altissimo tasso di debito aggregato che supera il 450% del Pil (il debito pro capite degli Usa ammonta a 160.000 dollari). Questo significa che anche le famiglie e le imprese debbono recuperare denaro per alleggerire la loro esposizione debitoria ed i relativi interessi e, dunque, la pressione fiscale non può salire oltre una certa soglia senza compromettere la stessa crescita.
Ma il punto più dolente è un altro: con un debito pubblico complessivo al 160% del Pil (includendo amministrazioni locali ed enti pensionistici di cui lo Stato si è fatto garante), considerando gli interessi medi annui sul debito esistente, questo significa che il 2-2,5% dell’aumento del Pil è assorbito dagli interessi, e circa un terzo di essi va ad investitori esteri, il che significa che è sottratto alla crescita interna.
Dunque, il rimborso del debito dovrà attendere un bel po’ prima di essere effettuato. Per ora restiamo alla previsione lineare di un incremento annuo costante del 4% senza considerare alcun rimborso del debito. Questo significa che per portare il debito al 40% del Pil (un livello di accettabile sostenibilità) occorrono circa 30 anni, un tempo infinito nel quale non ha senso fare previsioni economiche.
Il Giappone ha margini di debito pubblico molto più pesanti (oltre il 220% del Pil) però può giocare su tre fattori a suo favore: il possesso di 850 miliardi di dollari di debito Usa, il minore debito aggregato, il possesso della maggior parte del suo debito da parte dei suoi cittadini, ma ha indici demografici molto più negativi in prospettiva.
L’Italia ha un debito al 120%, ha crediti molto più modesti di quelli giapponesi, ma ha una situazione decisamente più favorevole dal punto di vista del debito privato, mentre gli indicatori demografici sono ugualmente cattivi. In entrambi i casi, gli interessi sul debito si “mangiano” una bella fetta del bilancio statale e sottraggono risorse agli investimenti.
Dunque anche in questi due casi, l’ipotesi di una crescita in grado di azzerare il debito o anche solo ridurlo a proporzioni intorno al 60% è pensabile solo in tempi lunghi. Probabilmente inferiori a quelli degli Usa, ma pur sempre troppo lunghi per poter essere considerati significativi sul piano economico.
Nel caso italiano, il problema maggiore viene dal tasso di crescita ormai inesistente e dalla difficoltà di immaginare un piano di sviluppo che possa credibilmente portare la crescita a tassi del 3 o del 4% anno del Pil.
Dunque, per una ragione o per l’altra, l’ipotesi di sconfiggere il debito solo con la crescita non appare credibile in nessuno di questi tre casi.
Di Spagna, Grecia, Portogallo e Irlanda non diciamo, ma dubbi molto forti si possono esprimere anche per Francia, Inghilterra e persino per la “virtuosa” Germania che denuncia un debito del 73% sul Pil ma che, in realtà, ha una situazione ben più sfavorevole (ma ne parleremo più diffusamente in un’altra occasione).
Ovviamente, la crescita è necessaria ed è auspicabile che essa sia la componente più importante di una strategia anti-debito, ma, in ogni caso, non appare realistico pensare di farcela solo in questo modo. Peraltro, occorrerebbe poi entrare nel merito di cosa significa crescita , ma di questo parleremo in un altro momento.
Per ora ci limitiamo a segnalare quanto sia ideologico e propagandistico il mantra della “crescita che sconfigge il debito” da cui siamo partiti.
La crescita è necessaria, ma, nei casi di Usa, Giappone ed Italia, insomma,non basta.
Articolo a cura di aldogiannulli.it