Emergenza banche non sono in grado di gestire le sofferenze bancarie delle imprese

L’esperienza in prima linea nella cura delle imprese in crisi dice che i tempi d’intervento sono troppo lunghi.

Lo sono sia che si tratti di interventi complessi -con l’utilizzo degli istituti previsti dalla legge fallimentare a tutela di banche e creditori- sia che si tratti di piccoli interventi su situazioni di importo poco rilevante. I tempi lunghi si conciliano malissimo con un’impresa in crisi, che ha bisogno di interventi rapidi per ripristinare il flusso di liquidità e evitare l’insolvenza che la porta dritta nelle sezioni fallimentari di un tribunale.

Vi sono due principali ragioni che causano questi tempi lunghi, entrambe hanno in ultima analisi l’effetto negativo di complicare il recupero e di pregiudicare le probabilità di successo.

– La prima è che gli imprenditori ritardano sistematicamente l’intervento sottovalutando la gravità dello stato di salute della propria impresa sino al punto di negare evidenze visibili a chiunque esamini il caso.

– La seconda interviene quando la crisi è stata manifestata e dipende totalmente dai tempi di risposta esageratamente lenti del sistema bancario, che si dilatano in tutte le situazioni (la maggioranza) in cui debba intervenire una decisione collegiale, anche per motivi legali, e allora il processo decisionale si rallenta ulteriormente solo a causa della difficoltà di convocare una riunione a cui tutti possano partecipare.

Il sistema bancario è sfuggente su questo argomento, ma le lamentele di chi vede dilatarsi i tempi decisionali per ottenere un accordo alla ristrutturazione del debito non si contano più. Sono i processi decisionali delle banche il collo di bottiglia che ritarda l’intervento di risanamento sulle imprese in crisi e il vero motivo è serio quanto banale: le banche sono sottodimensionate per gestire un traffico di situazioni di crisi così numeroso. Volendo cercare una prova per questa affermazione potrebbe bastare leggersi le (poche) informazioni ufficiali da cui desumere la dimensione numerica della casistica.

I quotidiani hanno imparato con ritardo a contare i volumi di sofferenze che crescono al ritmo del 22-23% anno (come in novembre), ma non si sono mai posti il problema di cosa significhi gestire un pronto soccorso con così tanti casi di imprese in difficoltà.

Partiamo dal numero di imprese in sofferenza, le quali sono solo in parte oggetto di interventi di vera ristrutturazione, trattandosi per lo più di casi considerati persi e destinati a pratiche di recupero giudiziario. Ma il numero delle posizioni di imprese in sofferenza e la sua dinamica di crescita negli ultimi 3 anni dice comunque molto.

I numeri dicono che nell’arco di 30 mesi (da fine 2010 a metà 2013) le posizioni di micro-imprese e imprese classificate a sofferenza dal sistema bancario sono aumentate di oltre 110.000 unità: per la precisione 46.784 micro-imprese (+37,5%) e 64.327 imprese (+45,7%) comprendenti PMI e grandi imprese. Tenete come punto di riferimento il numero di fallimenti che non supera il livello di 15.000/anno.

Tuttavia il problema della gestione del numero di feriti è stato l’ingresso di almeno 100.000 nuovi casi critici, una gran parte dei quali erano già in infermeria (classificazione a incaglio).

Il numero maggiore di malati arriva dal settore terziario (117.700 con una crescita 38.000) mentre l’industria manifatturiera conta quasi 45.000 casi con il tasso di crescita nel periodo esaminato più ridotto: 32% contro il 59% del settore costruzioni che è diventato la bestia nera del sistema bancario.

Per fare una stima di quanti altre imprese malate siano nella cura delle banche si possono solo fare alcune ipotesi. Gli incagli totali a giugno 2013 (comprensivo del dato sui privati) erano un totale di 86 miliardi contro 138 miliardi di sofferenze. Mediamente gli incagli sono stati nel periodo circa il 60% delle sofferenze. Riportando la stessa percentuale nel mondo imprese e micro-imprese si può stimare che siano in cura 103.000 micro imprese e 120.000 imprese, che saranno pure un numero fisiologico su circa 1-1,5 milioni di imprese, ma per gestire 220.000 posizioni incagliate e una parte di quelle 380.000 posizioni già messe a sofferenza occorre un esercito di barellieri, infermieri e medici.

Le banche non hanno tutto questo personale specializzato, hanno distribuito l’enorme carico di lavoro di pronto soccorso sulle filiali della rete, ma il personale è raramente specializzato e attrezzato per interventi che non provochino il decesso del paziente oppure qualche grattacapo legale per la banca.

Nessuno nelle banche si attendeva questo arrivo massiccio di casi da curare e nessuno si è attrezzato per tempo con la formazione del personale. I pochi interventi mirati a sostenere l’onda di imprese in difficoltà sono stati tardivi e per metterci una pezza.
Solo questi numeri bastano per spiegare quanto buone cose si poteva e ancora si potrebbe fare se il sistema Italia si muovesse in modo coordinato per risolvere i problemi, senza perdere tempo a negarli. Purtroppo così non è.

 

Articolo di F. Bolognini – ripreso da Linkerblog.biz