I molti focolai di tensione in Estremo oriente, ma anche in Africa del Nord, sono paralleli alla profonda crisi che investe l’economia americana e quella mondiale. Falliti i progetti keynesiani di Barack Obama, siamo vicini a una super-inflazione del dollaro, mentre i dati del mercato reale sono ai minimi storici. Sfiducia verso le Banche centrali.
I bombardamenti di Israele in Siria e l’attentato ad Ankara contro l’ambasciata Usa e prima ancora l’uccisione dell’ambasciatore americano in Libia nell’attentato di Bengasi (appena dopo che si era incontrato con l’ambasciatore turco per discutere della “fornitura” – o contrabbando ? – di armi da destinare alla ribellione siriana) disegnano uno scenario politico mondiale molto teso.
Se si considerano poi le altre aree di tensione, tra Cina e Giappone, Israele ed Iran, la Corea del Nord nuclearizzata, il fronte magmatico tra Afghanistan e Pakistan, le difficoltà dell’Africa del Nord e quelle più in generale dell’Africa Occidentale si arriva alla conclusione che un conflitto su larga scala potrebbe essere prossimo. Un evento bellico di tale estensione non avrebbe però senso senza un forte sottostante squilibrio economico. Purtroppo molti fattori fanno ritenere che il collasso del sistema monetario ed economico attuale sia possibile ed ormai prossimo.
I fallimenti di Obama, Bernanke, Geithner
A più di cinque anni dall’inizio della crisi immobiliare negli Usa e dei titoli “sub-prime” ed a quattro anni dalla successiva crisi finanziaria innescata dal fallimento della Lehman (del settembre 2008) un semplice dato ci dice che l’economia mondiale è ben lontana da una reale ripresa. L’indice dei noli del carico secco, il Baltic Dry Index, BDI, si situa attorno a 750, leggermente superiore ai minimi di metà settembre 2012 (662) e di fine anno (698) ma in rapida discesa rispetto al 21 gennaio scorso (838).
Siamo a livelli siderali di distanza dal massimo storico del BDI del maggio 2008 (11.793) ed a due passi dal minimo storico – dal 1986 – del 5 dicembre 2008 (663). È un indice molto significativo perché è un dato sintetico che riguarda la movimentazione di materie prime di base come il minerale di ferro, il carbone – fonte primaria di energia in Cina, la seconda, se non la prima, economia del pianeta – le granaglie (come la soia ed altri cereali).
Niente può rendere più plastico ed evidente il fallimento delle teorie economiche keynesiane degli ultimi 50 anni, quando, con l’avvento della presidenza Kennedy nel 1961, divennero l’ortodossia economico- religiosa professata nei Paesi occidentali. Infatti, su suggerimento dei “consigliori”, i compiacenti premi Nobel per l’economia come Krugman e Stiglitz, la cura è stata quella classica: immettere liquidità. E una liquidità davvero enorme è stata immessa nel sistema da Bernanke, tramite la QE, la QE2, la QE infinito, coadiuvato da Tim Geithner al Ministero del Tesoro, (Stimulus I e II) e da tutto il governo del presidente nato, così ci dice, alle Hawaii, (l’Obamacare, la “Green economy”).
Ad esso si deve aggiungere il volenteroso sostegno di ogni possibile espediente di spesa della Cia e del Pentagono, il cosiddetto keynesianesimo militare (cioè le guerre varie – la campagna d’Africa, la Primavera Araba, la lotta di “liberazione” di Libia e le altre piacevoli “scampagnate”, senza contare l’Afghanistan e l’impegno indiretto in Iraq). Si è trattato davvero di una valanga di liquidità, di spesa in deficit, che secondo i sacri Veda del venerabile Keynes avrebbe dovuto rianimare la crescita. L’effetto promesso, anzi garantito, declamato dalla lirica della propaganda del nuovo Kennedy nero – “yes, we can”, sì, lo possiamo – non c’è stato: il tasso di occupazione stagnante e la crescita economica asfittica ne sono testimonianza.
Nel gennaio 2009 la disoccupazione era al 7,80 % della forza lavoro nel gennaio 2013 al 7,90 % (dopo aver toccato un picco tra il 10,10 % ed il 9,80 % tra l’ottobre 2009 e l’ottobre 2010). Questi, ovviamente sono i dati ufficiali, calcolati sulla base dei parametri statistici introdotti nel 1994 che escludono i disoccupati di lungo periodo, che scoraggiati non cercano nemmeno più lavoro. Se si calcolassero anche costoro il dato vero sarebbe di una disoccupazione pari a circa il 23 %.
Simile è il caso della crescita economica: il tasso di crescita nel 2012 è stato del 2,2 %, ma questo dato è ottenuto per differenza sottraendo al tasso di crescita nominale il tasso ufficiale di inflazione. Come invece ben sanno le massaie, il tasso reale di inflazione è più alto di quello ufficiale, sia negli Usa che altrove. Le attuali metodologie econometriche sottostimano infatti il tasso di inflazione e se si applicano i metodi di rilevazione in uso fino agli anni ’80 osserveremo un tasso di inflazione ben più elevato e per conseguenza scopriremmo che negli Usa la crescita economica è stata in realtà negativa, -2% circa.
Ancora più preoccupante è la una contrazione nei dati ufficiali, una crescita negativa, pari a -0,1 % nell’ultimo trimestre, che segnala l’inizio di una nuova recessione. Nonostante, dunque, la potenza di fuoco, in termini di incremento della spesa pubblica, Obama, l’eroe del riscatto dei diseredati, asseverato nella loro saggezza da quasi tutti i guitti di Hollywood e dagli onniscienti esperti televisivi ma anche dai seriosi burocrati e dai baroni universitari del politicamente corretto ha di fatto fallito.
Debito pubblico alle stelle
Alcuni splendidi risultati, però, Obama, il presidente americano più prontamente insignito con il premio Nobel per la pace, li ha davvero sortiti, grazie ai suoi “consigliori” keynesiani: ad esempio il più rapido incremento del debito pubblico in rapporto al PIL in epoca di pace. Era il 40,2 % a fine 2008, mentre a fine 2012, con circa 16.432 miliardi di dollari, il debito pubblico è arrivato a toccare quasi il 105 % del PIL, senza contare, ovviamente, gli impegni privi di copertura, messi a carico delle generazioni future, e senza contare il sostegno al sistema bancario e finanziario, posto nominalmente a carico della Fed, che ammonta al doppio del PIL.
Un altro splendido risultato è stato l’incremento dell’indice della Borsa americana S&P 500, che dopo il tonfo del 2008 – il 20 novembre l’indice aveva toccato 752, il minimo dal 1997 – si è prontamente ripreso ed a 1513 è di nuovo molto vicino ai livelli massimi precedenti la crisi. In questo Obama ha agito davvero bene, facendo diligentemente gli interessi dei suoi veri patrocinatori elettorali: non le masse dei discreditati, ovviamente, ma le grandi finanziarie di Wall Street ed i fondo speculativi, che a suon di contributi milionari lo hanno catapultato al comando.
Ora, però, chi non vuol ascoltare l’indice “spanno-metrico” della massaia, perlomeno osservi il BDI, come misura della realtà: la divergenza tra indice S&P 500, le quotazioni di borsa, ed il BDI, il trasporto di carichi secchi, è davvero impressionante. Uno è vicino ai massimi, l’altro ai minimi. Quale dei due rifletta meglio la realtà non è difficile stabilirlo: secondo informazioni di mercato (riferite da Clarkson’s, uno dei maggiori mediatori mondiali di noli) la mancanza di attività nel settore dei carichi secchi, di fissati reali, è marcata e non è dovuta solo al normale rallentamento connesso con le festività del capodanno lunare cinese.
Logico è perciò pensare che a riposizionarsi sia piuttosto l’indice di Borsa S&P 500 finora sostenuto dalle abbondantissime iniezioni di liquidità della Fed. È infatti difficilmente ipotizzabile che la Fed possa continuare ad alimentare la Borsa senza rischiare a questo punto una forte fiammata inflazionistica, con il greggio di riferimento, il Brent, già a 116 $ al barile, non lontano dai massimi a 150 $ bbl toccati nel 2008 poco prima della crisi Lehman. Più probabile è invece che al minimo segno di rallentamento dell’immissione da parte della Fed di nuova e sovrabbondante moneta a costi vicini allo zero, i tassi d’interesse possano risalire e le quotazioni di Borsa possano subire un crollo dalle altezze artificiali su cui si situano attualmente.
Se prendiamo il BDI come misura del reale, un ritorno dell’indice S&P 500 a livelli intorno ai minimi del novembre 2008, circa la metà di quelli attuali, sembra essere plausibile. A catena un crollo del 30 – 50 % della Borsa americana verrebbe ad influenzate tutte le Borse mondiali, trascinerebbe con sé le quotazioni delle materie prime non energetiche ed in particolare i metalli ferrosi e non ferrosi. Si può così innescare una nuova crisi dei derivati, in gran parte legati sia ai tassi d’interesse, che alle quotazioni di Borsa, che agli indici finanziari, che alle materie prime ed alle valute.
A catena, dunque, una riedizione della crisi dei derivati porterebbe, pertanto, ad una nuova aspra crisi bancaria e finanziaria. Per logica, ne conseguirebbe poi il collasso del dollaro ed infine la perdita di credibilità delle Banche centrali, il cui bilancio è ormai gonfiato all’inverosimile di titoli tossici, obbligazioni di fatto prive di valore perché i debitori non dispongono di una reale capacità di onorare gli impegni presi.