I fondi pensione italiani e la loro fiscalita’ martoriata

I fondi pensione italiani sono alcune centinaia, tutti censiti nell’albo della COVIP, la commissione di vigilanza sui fondi pensione. Pur essendo disciplinata per legge, la loro possibilità di investimento li fa rientrare a pieno titolo nell’ambito degli investitori istituzionali, al pari delle assicurazioni e di altri soggetti che necessitano di allocare importanti masse di denaro. La raccolta dei fondi viene effettuata presso i lavoratori iscritti e lo scopo è di erogare servizi pensionistici quando questi ne avranno titolo. Dunque si tratta di una ricchezza nazionale che, prima dell’utilizzo, come viene impiegata?
Tipicamente in titoli di stato, obbligazioni e azioni di grandi e medie aziende. Troppo spesso però, titoli di stato a parte, sul debito e capitale d’impresa questi investitori preferiscono l’estero, alimentando così un apparente paradosso: risorse create localmente finanziano lo sviluppo in paesi stranieri, una sorta di “fuga di capitali”, o forse sarebbe meglio dire “fuga di benefici da capitale”, assolutamente legale.
I motivi sono vari ma la principale difficoltà di finanziare lo sviluppo nostrano è la mancanza di “titoli” da acquistare. Le aziende quotate in borsa infatti sono molto poche rispetto al numero totale delle imprese. Queste tra l’altro, essendo costituite all’80% da piccole e medie imprese, non riuscirebbero a sopportare, o non ne comprenderebbero i motivi, dei costi di una quotazione. Tutto ciò impedisce loro di attingere alle risorse del mercato sia riguardo i capitali sia per le emissioni di titoli di debito (obbligazioni).
A parziale rimedio di tale situazione vi è la possibilità, da circa un anno, anche da parte di aziende non quotate di emettere obbligazioni a costi e benefici fiscali equiparabili a quelle quotate. Lo strumento, ribattezzato “minibond” considerando gli importi ridotti, se dal lato dell’azienda costituisce una fonte alternativa al sistema bancario, dal lato dei fondi pensione, ma anche degli altri investitori, è il mezzo per sostenere quello sviluppo locale che pure ha contribuito a creare le risorse che tali soggetti gestiscono. Quindi un modo per alimentare una sorta di circolo virtuoso raccolta-impieghi legata al territorio.
I fondi iniziano a considerare, almeno nel dibattito mediatico, tale possibilità, ma oltre all’ulteriore snellimento e alleggerimento degli adempimenti, però, dimenticano che il vero freno al decollo del mercato dei minibond, e minaccia per il loro futuro successo, è la scarsità di “progetti di futuro” (Business Plan) di qualità e l’assenza di strumenti di giudizi su questa qualità (Rating di Business Plan). Se i fondi si attrezzassero con tali Rating, sia per gestioni in proprio o tramite terzi, darebbero un impulso alla “progettazione di futuro” delle imprese. Progettazione, rappresentata nei Business Plan, che deve mirare alla produzione di copiosi flussi di cassa (tale è infatti un vero piano di sviluppo reale).
La cultura del giudizio strategico da parte degli investitori, dunque anche assicurazioni, favorirebbe anche una più corretta allocazione di risorse sugli investimenti azionari, privilegiando i veri creatori di sviluppo e stimolando coloro che si ritengono “istituzioni” ad emularli.
Spesso gli investitori istituzionali hanno invocato trasparenza sulle aziende italiane, condizione assolutamente necessaria per poter fornire quell’apporto di risorse indispensabili al loro sviluppo. Richiesta legittima che non si può però limitare ad aspetti contabili e amministrativi, che rappresentano per definizione il passato, ma va estesa alle “intenzioni di futuro”  (rappresentate ancora nei Business Plan insieme alle conseguenze che genereranno dal punto di vista economico, finanziario e patrimoniale) unica reale variabile di interesse per un investitore.
Articolo di Luciano Martinoli – ripreso dal blog imprenditorialitaumentata su.blogspot.it