In un primo momento, la Banca nazionale svizzera (BNS) ha tentato di ridurre il valore del franco e di abbassare il tasso di riferimento comperando ingenti somme di euro. È stata una strategia costata miliardi, ma che ha alleggerito soltanto momentaneamente la pressione sul franco.
In settembre, per frenare l’ascesa del franco nei confronti delle altre divise, la banca centrale ha giocato un’ultima carta. Ha fissato il corso minimo del franco a 1,20 nei confronti di un euro.
Questa iniziativa non ha certo lasciato indifferenti gli altri Stati fuori dalla zona euro. Ad un certo punto sembrava che Svezia e Norvegia volessero seguire l’esempio elvetico, grazie al quale avrebbero reso più attrattive per gli investitori le proprie divise.
Una situazione analoga a quella svizzera, la si ritrova in Giappone, dove lo yen è diventato a sua volta una moneta rifugio a causa della crisi del debito. Come altrove, a venir penalizzato dalla forza dello yen è stato soprattutto il mercato d’esportazione, su cui si basa l’economia del paese del Sol levante, la terza a livello mondiale.
Intervento massiccio
In agosto, la banca centrale nipponica è intervenuta sul mercato delle valute con una somma record di 4’500 miliardi di yen, ossia 52 miliardi di franchi svizzeri e con un’altra iniezione di 5’500 miliardi il giorno dopo.
Le autorità hanno inoltre messo a disposizione 100 miliardi di yen per incoraggiare i giapponesi a investire all’estero. La Svizzera, invece, aveva rifiutato ad inizio anno una proposta simile avanzata da un economista dell’UBS.
Le misure decise in Giappone sembrano tuttavia non sortire gli effetti sperati. Lo yen rimane infatti sorprendentemente forte rispetto a euro e dollaro. Un’indagine svolta nelle 105 principali società del paese ha indicato che più della metà sta valutando la possibilità di trasferire fabbriche e uffici oltreoceano.
Anche la Toyota è stata indebolita pesantemente dalla forza dello yen. La multinazionale sostiene di perdere 34 miliardi di yen, pari a 390 milioni di franchi, ogni qualvolta che la moneta si rafforza nei confronti del dollaro. La casa automobilistica ha così perso il primato nella costruzione di macchine a scapito della tedesca Volkswagen.
Dazi punitivi
Dal canto suo, il Brasile ha accusato gli Stati Uniti di svalutare il dollaro attraverso la politica monetaria della banca centrale americana, che pratica il cosiddetto alleggerimento quantitativo.
Ironia della sorte, prima della crisi economica erano gli stessi Stati Uniti a criticare la prassi della Cina di acquistare grandi quantità di fondi internazionali per indebolire artificialmente la propria moneta.
Nell’incapacità di tagliare i tassi di interesse in maniera significativa per paura di aumentare la già elevata inflazione, il Brasile ha optato per una tattica più aggressiva e controversa per combattere la forza della propria moneta, il real.
Nel 2009, il governo brasiliano ha introdotto una serie di dazi punitivi sui cambi di valuta e sull’acquisto di titoli. Adotta così un espediente che negli anni Settanta non aveva avuto successo in Svizzera quando il franco aveva guadagnato valore nei confronti del marco tedesco.
Durante la recente visita in Brasile, il ministro dell’economia svizzero Johann Schneider-Ammann ha affermato che la Confederazione non è “assolutamente” intenzionata a copiare simili tattiche. «Non credo proprio che sia una buona idea proteggere il nostro mercato con tasse punitive».
Concorrenza tra valute
Secondo il capo economista della banca Julius Bär, Janwillen Acket, il Brasile avrebbe molto più spazio di manovra rispetto ad altri Stati, grazie ai suoi elevati tassi di interesse. «Al momento, il Giappone ha invece tassi di interesse praticamente pari a zero e così il paese è chiamato a trovare una soluzione più creativa, così come ha fatto la Svizzera», spiega a swissinfo.ch Acket.
L’esperto in questioni finanziarie ha aggiunto che le valute rifugio dei paesi che dipendono dalle materie prime, come Australia, Canada e Norvegia, potrebbero scongiurare una sopravvalutazione nel caso in cui l’economia globale dovesse di nuovo entrare in crisi, ciò che ridurrebbe la domanda di petrolio e di risorse fossili di questi paesi.
«La tendenza globale che ha prodotto una maggiore concorrenza tra le valute, svalutandole, è in controtendenza rispetto al rallentamento dell’economia mondiale. Questa situazione potrebbe ridurre l’attrattiva di alcune monete», sostiene.
Quella di Acket è un’opinione condivisa da numerosi osservatori che hanno notato una relativa impotenza dei singoli paesi nei confronti degli scossoni dei mercati negli ultimi tre anni.
Articolo ripreso da swissinfo.ch