Gianfranco Miglio pensatore ed economista indipendente

Da Chicago Blog riprendiamo un articolo di Carlo Lottieri su Gianfranco Miglio.

Dopo il decennio abbondante di silenzio che ha fatto seguito alla morte, si torna insomma a parlare dello studioso comasco, soprattutto grazie alla determinazione con cui Alessandro Vitale – che di Miglio è stato l’ultimo allievo – ha  bussato alla porta di molti per far sì che la trascrizione delle sue straordinarie lezioni universitarie degli anni Settanta e Ottanta fossero raccolte in volume. E così il 25 agosto sarà finalmente in libreria (edita dal Mulino e intitolata Lezioni di politica) un’opera in due volumi, curata da Davide G. Bianchi e dal medesimo Vitale, in cui sono riunite lezioni che, a distanza di anni, non hanno perso per nulla il vigore originario e anzi mostrano quanto fosse visionaria la prospettiva teorica adottata da questo studioso.

Per chi ha avuto la fortuna di sentire la voce di Miglio risuonare nelle aule dell’università Cattolica di Milano la pubblicazione di queste pagine permette di rivivere un’esperienza particolare. Ma non si pensi che questa del Mulino sia un’operazione di tipo nostalgico. Al contrario, i testi migliani contengono elementi in qualche modo esplosivi anche perché, come ha rilevato Carlo Galli sul Corriere, nella teoria di questo autore lo Stato “è il grande nemico da combattere”, dato che egli “intende superare la distinzione tra la sfera pubblica e quella privata per organizzare la convivenza mediante un patto tra interessi corporati”.

Questo spiega come in Miglio (e particolarmente negli ultimi anni) la critica della modernità statuale lo abbia portato a valorizzare il federalismo: poiché la sua idea è che una politica legittima e destinata a durare implichi rapporti pattizi, liberamente scelti, e quindi una società di uomini responsabili e affrancati dai miti della religione civile e del repubblicanesimo.

Questo aiuta anche a comprendere perché si sia dovuto tanto aspettare per questa riscoperta di Miglio. E il motivo sta nel fatto che la sua è un’eredità imbarazzante per molti: quasi per tutti. Miglio è un autore scomodo per tanti cattolici, perché sebbene egli abbia sempre operato negli ambienti di largo Gemelli – dove fu anche preside della facoltà di Scienze Politiche – è sempre stato distante dal moralismo di quei cristiani portati a confondere la libera fraternità volontaria e la solidarietà di Stato imposta da politici e burocrati. Proprio perché strutturalmente “conservatore” (come hanno rilevato Lorenzo Ornaghi e Pierangelo Schiera nel loro intervento sul Corriere), egli tendeva a mostrarsi assai scettico di fronte alla retorica socialdemocratica che nel corso del Novecento ha pervaso il mondo cattolico e ha snaturato una tradizione culturale lunga due millenni.

Ma anche chi ha voluto vedere in lui un “reazionario” – sebbene di genio – si trova oggi un poco a disagio dinanzi all’eredità migliana. Diversamente da un autore come Carl Schmitt, ad esempio, Miglio appare assai poco utilizzabile dagli statalisti di destra e di sinistra, perché in lui il realismo politico si è progressivamente convertito in una critica radicale della modernità che ha finito per contestare il vero totem degli intellettuali del nostro tempo: il potere pubblico. Mentre post-fascisti e post-comunisti possono amabilmente duettare in convegni consacrati al problema della tecnica in Heidegger o alla crisi del sentimento comunitario, l’aspra critica dello Stato e del parassitismo organizzato che sono al centro della riflessione migliana fa sì che questo autore sparigli le carte e obblighi ad abbandonare i minuetti di quel gioco accademico che tende a mantenere le cose sempre identiche a se stesse.

Per Miglio, il federalismo poteva rappresentare una vera alternativa allo Stato: era la costituzione di un ordine basato su autonomia, concorrenza istituzionale, libertà locale, responsabilità, diritto di secessione. Era la riscoperta di quell’altra “metà del cielo”, per usare una tipica metafora migliana, in cui lo studioso lombardo collocava le istituzioni perdenti del mondo moderno: dalle Province Unite olandesi alla Lega Anseatica. Tutti ordini politici privi di un vero centro di potere e basati su accordi essenzialmente privatistici, che hanno indicato all’Europa una strada alternativa rispetto a quella dello Stato che quasi nessuno, però, ha voluto o saputo imboccare. (Forse l’unica eccezione è rappresentata dalla Svizzera.)

In ragione di questo suo radicalismo, Miglio è scomodo anche per chi oggi vorrebbe contrabbandare per federalismo una semplice revisione di quello Stato centralizzato, giacobino e prefettizio, che la Destra storica ha costruito all’indomani dell’unificazione italiana.

Questo spiega perché quello di Miglio sia un pensiero destinato a disturbare molti. E non a caso, dopo la sua morte, il silenzio è sceso come una coltre sopra quelle riflessioni ancora oggi esplosive e più di altre meglio in grado di aiutarci a far fronte ai disastri del presente.

Oggi, comunque, Miglio sta tornando al centro della scna, proprio mentre nel 150mo anniversario dell’unità vengono al pettine tutti gli errori commessi in quei lunghi decenni durante i quali il professore ha vivisezionato vizi e paradossi della politica nostrana. Miglio ora è riscoperto a dispetto di tutto, ma in fondo non c’è da stupirsi. Alla fine, il destino del genio è quello d’imporsi.

Da Chicago-Blog.it