Giulia Aranguena dello studio legale ADLP ci parla del Bitcoin e delle sue implicazioni

Dobbiamo tenere conto che il bitcoin è giovane rispetto a sistemi economici che si basano su protezioni normative e statali di qualche centinaio d’anni.

Quindi c’è anche una protezione normativa che il Bitcoin non ha perché è uno strumento non regolamentato: questo è fondamentale da capire, anche come impatto sulla sua instabilità o volatilità.

Che per questo non ne fa una riserva di valore affidabile e stabile e quindi elimina una delle caratteristiche fondamentali dello strumento monetario. Ma questa instabilità non inficia l’utilizzabilità del bitcoin come strumento di pagamento. Perché la maggior parte di chi accetta pagamenti bitcoin assicura il rischio di cambio. Oltretutto questa instabilità deriva non solo dal fatto che non esiste una banca centrale – anche se poi esiste in realtà una banca “de-centrale” che è la block-chain in sé –, ma bisogna capire che nel mondo bitcoin la stabilità del prezzo e del valore che si può ottenere e che i sistemi convenzionali hanno, deriva anche da un mercato sviluppato di derivati (futures e altro). E cioè l’esistenza di collaterali (futures, swap) che stano crescendo nel mondo bitcoin perché esistono 4-5 piattaforme tra Hong Kong e Singapore.

Il modello del payment è un modello disruptive rispetto al modello dei processori di pagamento convenzionali, che è un modello che tutto sommato ha 40 anni di vita. Perché, che sia tripartito o quadripartito, è un modello lento, ha settlement e regolamento di una transazione localizzato in un luogo fisico. Per fare un bonifico bancario il regolamento dell’operazione avviene nei tempi tecnici. Sul Sepa abbiamo 4-5 giorni, con bitcoin la transazione è regolata in 5-8 minuti. Questo perché settlement e regolamento dell’operazione sono decentrati. Il bitcoin in sé è uno strumento legale, è un documento informatico che incorpora una legittimazione e una titolarità: significa che il bitcoin risolve in maniera automatica un problema fondamentale, ossia il trasferire legittimità e proprietà di un asset senza il bisogno di un terzo che certifichi la regolarità di questo passaggio.

Non è vero che non esistono intermediari, ma è vero che bitcoin permette sia pagamenti person-to-person e cioè wallet-to-wallet, sia pagamenti con processori di pagamento, quindi intermediari. Che però non sono intermediari in senso istituzionale del termine, forniscono semplicemente interfaccia friendly a quella che è la block-chain. Tutto questo Goldman Sachs nel marzo 2014 lo ha valutato in termini di risparmio netto al valore nominale sul mondo delle payment di 150 miliardi. Questo significa che se un merchant accettasse solo metà pagamenti in bitcoin, genererebbe per la sua aziendina un risparmio di 1 milione di dollari l’anno. E Goldman Sachs  e indirettamente Bce stanno promuovendo – da qui l’interesse delle istituzioni e dei grandi attori affermati in questa ‘economia – la coopetition, che poi è il modello di PayPal, che da una parte è stato competitore, ma dall’altra collabora anche con il mondo tradizionale. La Bce questo indirettamente lo raccomanda, e lo sta anche dicendo ai processori di carta e ai detentori di moneta bancaria scritturale che BCE equipara, perché finalmente si dice quello che si doveva dire: e cioè che il legal tender è una cosa e la moneta bancaria scritturale è un’altra. Che l’accettabilità è by choice, e dunque è contrattuale tanto quanto il bitcoin. Che la competizione monetaria è tra bitcoin-monete digitali e money-moneta bancaria.

E la Bce dice anche che i vantaggi del protocollo  bitcoin stanno nel condividere gli investimenti, abbassare gli investimenti (perché vengono decentralizzati e distribuiti), non c’è più bisogno di costi infrastrutturali enormi, c’è un abbassamento delle barriere di ingresso (che va contro anche il bitcoin, che si troverà 500 competitori, non essendoci protezione, tutti possono farsi la loro moneta alternativa). Ma siccome è un protocollo open source che sollecita collaborazione e condivisione, si è in grado di garantire al mercato paradigmi di pagamento sempre più innovativi, e questo la Bce lo riconosce.

Io vorrei sfatare la questione dell’anonimato. Perché sì, l’anonimato fa gola ai malintenzionati, è vero. Ma non siamo tutti delinquenti: l’anonimato – o è meglio parlare di “pseudo-anonimato – significa – e questo è uno dei vantaggi del bitcoin come strumento di pagamento – che le informazioni rilevanti di una transazione finanziaria non devono essere comunicate per processare la transazione, per la sua eseguibilità. Significa che non bisogna mettere i propri dati. E tra i consumatori c’è una certa diffidenza nel condividere i dati finanziari in rete. L’anonimato protegge questo, non il delinquente by default. Dà una risposta alle paure comuni che rallentano, soprattutto nel nostro Paese, che rallentano la diffusione del commercio elettronico e il pagamento digitale, che fatica a passare nella cultura italiana proprio per la diffidenza nel condividere questi dati.

Il bitcoin è tracciabilissimo, bisogna soltanto sapere l’ingresso e l’uscita. Lo pseudo-anonimato è comunque un valore per molti investitori che, lo sappiamo tutti, in un momento in cui tutti i paesi della blacklist finanziaria passano il whitelist  e Svizzera rinuncia al segreto bancario… Perché di questo si tratta: l’anonimato è il segreto bancario.

Un altro punto, i costi di intermediazione: certo che ci sono, ma c’è una differenza. Il merchant rate che si paga con i processori tradizionali negli Usa oscilla tra il 2 e il 3,5% , nel bitcoin e all’1%. Ma c’è un’avvertenza da fare: questo costo potrebbe salire perché il bitcoin non è regolamentato e quindi gli obblighi di compliance si potrebbero riversare sui costi.

 

Testo ripreso dall’intervento di Giulia Aranguena presso il Forum “Criptovalute tra Opportunita e Richieste di Regolamentazione”, pubblicato su il sole24ore.com