Con interesse ho letto l’articolo de Il Fatto Quotidiano del 27 dicembre 2011, a forma di Vladimiro Giacché, con titolo “Euro, sette balle sui tedeschi”. In particolare, tra le sette inesattezze sui tedeschi, appare degna di nota la seconda. Informa Giacché che «I tedeschi non lavorano più degli altri: in Italia ogni lavoratore lavora 1.711 ore, in Germania 1.419 […] Poco però dei guadagni si è trasferito ai salari: dal 2000 in termini reali i salari tedeschi sono diminuiti del 4,5 % (caso unico nella zona euro). Ciò ha depresso la domanda interna, ma ha spinto le esportazioni».
Effettivamente, questo paragrafo sembra corrispondere appieno al concetto di “inesattezze sui tedeschi”. Spieghiamo meglio: in realtà, il caso della Germania non è affatto l’unico dell’area euro. I salari reali sono diminuiti anche in Italia (oltre 5 mila euro in meno), già da prima della crisi. Possiamo aggiungere che i salari reali in Germania sono diminuiti a partire dalle riforme del lavoro introdotte nel 2004-2005, che sono costate la poltrona di cancelliere a Schroeder, ma hanno consentito oggi alla Germania di avere la posizione che ricopre.
Le riforme hanno consentito di far partecipare al lavoro anche la manodopera dei Länder orientali. Purtroppo, il diverso sistema formativo aveva creato una generazione di lavoratori meno produttivi rispetto ai compatrioti dell’Ovest. Le riforme degli anni Duemila hanno consentito di poter integrare persone con salari più bassi: la diminuzione del 4,5% cui fa riferimento Giacché dipende in larghissima misura dall’ingresso nel mondo del lavoro di persone dell’Est, che vengono pagate di meno.
A titolo di esempio nel Land della Sassonia-Anhalt lo stipendio medio era l’ 81,3% rispetto alla media nazionale (dati 2010). Così si spiega anche lo stupore di molti lettori che hanno letto questi dati: il riferimento di noi italiani sono la Baviera e la Ruhr, terre d’immigrazione, dove gli stipendi negli ultimi dieci anni sono saliti. È grazie a tutto questo se, in soli vent’anni, è stata risolta gran parte dei problemi d’integrazione economica dell’ex-Germania Est.
Consideriamo poi l’aspetto del “i tedeschi lavorano poco”. Qui bisognerebbe intendersi sul concetto di “lavorare poco”. In Germania, per ogni 100 persone che lavorano, 76 non lavorano. In Italia, ogni 100 attivi ci sono 111 inattivi. Insomma, nel nostro paese sono pochi quelli che “tirano la carretta”, e per questo devono lavorare di più.
Si può anche fare un calcolo proporzionale. Su mille persone, in Italia lavorano in 474, e in totale producono un “monte ore” di 474 moltiplicato per 1.711 ore, cioè 811.014 ore. In Germania, ogni mille persone sono 568 quelle che lavorano, per un monte ore di 568 moltiplicato per 1.419, corrispondenti a 805.992 ore. Si tratta di un misero 0,6% in meno rispetto agli italiani. Allunghiamo un po’ la pausa caffè, e siamo a livello loro.
Oppure, potremmo placidamente considerare che le aziende più grandi, unite ai maggiori investimenti in ricerca e sviluppo, creano condizioni di produttività che consentono ai tedeschi di lavorare uno 0,6% in meno di noi. Si potrebbe parlare anche di Università e di formazione della classe dirigente, ma ormai chi scrive ha perso le speranze.
Ma perché condannare la strada tedesca? In fondo, è un tema che dovrebbe esser caro alla sinistra: lavorare meno, lavorare tutti. L’andamento dei consumi in Germania spiega che la disoccupazione al 6%, come quella di questi mesi, fa star tutti felici, soprattutto se in famiglia non lavora solo il papà, e se al figlio non viene assegnato uno stipendio da subumano.
Il fatto che più persone lavorino consente anche ai tedeschi di andare in pensione in anticipo, senza dover lavorare per sostenere i consumi delle famiglie. Secondo gli ultimi dati, nel 2010 il 47,5% dei tedeschi ha lasciato il lavoro prima dell’età pensionabile, accontentandosi di una pensione più bassa. L’età media all’accesso alla pensione è di 63,5 anni.
Articolo ripreso da linkiesta.it