I vertici della Banca Popolare di Vicenza raccontano dei problemi con la quotazione in Borsa

Se credete che esista un solo Stefano Dolcetta, vi sbagliate. Ce ne sono almeno due. No, non perché ieri é comparso contemporaneamente in un due interviste parallele sul Giornale di Vicenza e sul Gazzettino. Ma perché ce n’é uno “buono” e uno “cattivo”. Buono, perché dice cose interessanti, utili, virtuose. Cattivo, perché etimologicamente “prigioniero” (captivus) di convinzioni che non gli fanno onore. E che fanno indignare i già furibondi soci della Banca Popolare di Vicenza, di cui era presidente fino al 7 luglio scorso.

IL LATO CHIARO DELLA FORZA…

Il Dolcetta gustoso é quello realista, sia pur ex post, che rivela l’inconsistenza dell’interesse dei fondi, specie statunitensi, su cui contava l’ad Francesco Iorio nella fase in cui la banca sperava di ricapitalizzarsi quotandosi in Borsa: «Credo… che ci sia stato anche un timore sulle prospettive, prima sulla base del valore di recesso a 6,3 euro e poi di una possibile ipotesi ad 1 euro. I fondi avevano capito che già 10 centesimi erano un prezzo elevato» (GdV).

Il Dolcetta da sottoscrivere e controfirmare é quello giusto (non “giustizialista”, che é un vocabolo solitamente usato da chi usa lo speculare termine “garantista” quale sinonimo mascherato di impunità), che pensa che «di sicuro se il cda passato avesse avviato l’azione di responsabilità ne sarebbe uscito meglio» (Gazzettino). Il Dolcetta che piace perché dice la pura verità é quello che constata l’evidenza: «Popolare Vicenza non era così efficiente, troppi costi, non brillava come redditività, troppi sportelli. Il mercato oggi è spietato. Ma è anche nell’ordine delle cose che chi investe così tanto come Atlante voglia avere tute le leve di comando, anche perché la sfida che ha davanti è complessa: ci vorrà tempo per far ritornare Popolare Vicenza a livelli accettabili, non meno di 4 anni» (Gazzettino).

Il Dolcetta che scende bene dopo i pasti é l’uomo d’azienda che boccia senza appello la gestione di Gianni Zonin e del cda da lui presieduto (fino al 18 luglio) nella Fondazione Roi:«Il mio è un giudizio aziendalista: se un Cda chiude un esercizio contabile con 24 milioni di perdite, per me deve andare a casa. Non si può avere il 30% del proprio patrimonio investito su un unico titolo (…). Credo poi che l’indirizzo strategico di una Fondazione legata alla cultura debba essere in capo a persona con preparazione specifica e non per forza al presidente di una banca» (GdV);

«Certo, se in una mia azienda un cda avesse presentato un bilancio con 24 milioni di perdite quel consiglio sarebbe già a casa. Non si può investire il 25% del tuo patrimonio in un unico prodotto, come hanno fatto con le azioni di Popolare Vicenza» (Gazzettino). Il Dolcetta lucido é quello che, a domanda sull’adeguatezza ai propri doveri da parte di Banca d’Italia (domanda rimasta inevasa), ammette quel che già si sapeva, alla faccia del retoricume sulla “banca del territorio”: «Quando sono diventato Presidente la Banca era già controllata dalla Bce. Con Bce sono cambiate per tutto il sistema alcune regole circa le modalità dell’azione di vigilanza, in particolare requisiti più stringenti per gli amministratori e una richiesta di maggiore capitalizzazione del sistema bancario italiano» (Gazzettino).

…E IL LATO OSCURO

Il Dolcetta che ha un brutto sapore é quello, invece, che in una certa misura “assolve” le responsabilità locali, di quel suddetto famoso “territorio”: «Da maggio 2015 è crollato il mondo bancario in Italia. Basta l’esempio di Unicredit che ha perso il 75% solo da inizio anno; tutte le altre banche sono su quei livelli, ma sembra che il crollo abbia riguardato solo le banche venete». “Banche venete”?

Un conto erano la BpVi e Veneto Banca, che tramite giudizi autoreferenziali si autoattribuivano un valore azionario risultato poi gonfiato, un altro era, per esempio, il veronese Banco Popolare, che essendo quotato in Borsa questo giochino non poteva condurlo. Ecco perché si sgonfia pure la tesi, in sé vera, ma fallace nel caso delle due ex popolari, del regime preferenziale per le banche tedesche, dovute al primato geopolitico della Germania in Europa.

Il Dolcetta che proprio non si può sentire é quello che se ne esce con l’idea dell’«accanimento»: «Non so se sia stato fatto ad arte o sia emerso casualmente, ma era partito ancora mesi prima con gli attacchi personali a Zonin e poi è proseguito. Ci sono state altre banche in difficoltà, ma non hanno subìto gli stessi attacchi. Non so spiegarmi i motivi. Forse sono dovuti alla reazione allo strapotere avuto per anni da Zonin e Consoli, oppure è un dazio fatto pagare a questo Veneto mai amato da nessuno fuori di qui» (GdV).

Forse, quando parla di altre banche in difficoltà, si riferisce proprio al Banco Popolare. Ma il motivo per cui non ha subito gli “attacchi” lo abbiamo detto prima, e riguarda la trasparenza di mercato,senza contare quel che é emerso su Vicenza e Montebelluna grazie alle ispezioni Bce riguardo i finanziamenti “baciati” e gli azionisti “scavalcati”. La BpVi che presiedeva Dolcetta, sprofondata a 10 centesimi ad azione, ha polverizzato i risparmi di centinaia di migliaia di famiglie e aziende. Chiederne conto a chi ha gestito la banca, é accanimento?

Il Dolcetta che lascia l’amaro in bocca é quello che, pur dicendo sopra che l’azione di responsabilità andava fatta, sostiene poi che la sua proposta (accolta) «era di passare la palla al prossimo Cda perché in quel momento c’era ancora in carica il vecchio ed era il periodo in cui si pensava ancora che la banca potesse quotarsi: un’azione di responsabilità contro la maggioranza del Consiglio sarebbe stata quantomeno inopportuna per il mercato» (GdV). Sì, se la BpVi fosse stata e fosse in normali condizioni per agire sul mercato. Ma non nell’esigenza primaria di ristabilire la fiducia del mercato e dei suoi stessi soci (chiamati eroicamente a ri-sottoscrivere), proprio per il discredito in cui era finito il cda passato.

Perciò, si sarebbe anche potuto risparmiare quest’altra uscita infelice: «Credo che la banca dovesse avere una cesura netta con il passato» (GdV). Abbiamo dovuto aspettare Atlante, per veder fuori dal board i 9 immarcescibili reduci dell’era Zonin.

Il Dolcetta che piace poco o punto è quello che sulla Roi scivola su due dettagli tutt’altro che dettagli, quando parla delle azioni BpVi comprate dalla fondazione in successive ricapitalizzazioni: «e questo indipendentemente dal fatto che fossero azioni di Bpvi. Ad onore del vero Zonin aveva già presentato le dimissioni due mesi fa, ma gli è stato chiesto che il Cda prima approvasse il bilancio» (GdV). Indipendentemente un par di ciufoli. E’ vero che investire tutta la liquidità in un unico cespite, secondo una regoletta di base della finanza, é sempre sbagliato. Ma a casa nostra fa una certa differenza che Zonin, da presidente della Roi, facesse acquistare titoli della banca presieduta da Zonin, ch’era anche presidente della BpVi. Inoltre, giusto per amor di verità, quando Zonin si disse disponibile a dimettersi dalla presidenza della Roi, a chiedergli di restare fu proprio lui, Dolcetta.

Infine, indigeribile é il giudizio, che fa a pugni con altri di cui sopra, sul ventennio zoniniano: «credo… che sarebbe stato opportuno che in una società cooperativa le cariche importanti dovessero cambiare più spesso. Gianni Zonin è rimasto in carica 20 anni. Era consuetudine in tutte le banche. Quando Zonin è arrivato 20 anni fa questa era una piccola banca, bisogna dare merito alla persona che l’ha fatta crescere, ma poi non è stato in grado di adeguare le strutture di governance alle nuove esigenze di una banca con quelle dimensioni, che peraltro neppure la Vigilanza ha avuto forza di imporre».

Ora, che ci siano dinosauri presidenti a vita in certi istituti finanziari, specie nelle fondazioni, questo é verissimo. Come é anche vero che la BpVi é cresciuta enormemente, rispetto al 1997, anno primo dell’era Zonin. Ma se si sostiene che gli uomini al vertice delle popolari era bene cambiassero (ed era bene che cambiassero), che senso ha imputare a Zonin di non averlo fatto? Che interesse poteva avere Zonin a togliersi di capo la corona, a detronizzarsi da solo? E se la vigilanza non ha imposto il ricambio, perché non dire chiaro e forte che la Banca d’Italia non ha fatto quel che doveva fare, cioé intervenire sull’opacità di una banca per troppo tempo presieduta da una stessa persona? E soprattutto: perché Dolcetta ha sentito il bisogno di due interviste nello stesso giorno, in cui per altro sembra non accorgersi di fare strame del principio di non contraddizione?

Articolo ripreso dal sito vox.it – autore: A_Mannino