Riprendiamo di seguito la traduzione integrale a cura di “Voci dall’estero” di un articolo di Jeremy Warner apparso sul The Telegraph in data 31 gennaio.
L’autore sottolinea l’asimmetria informativa sulle situazioni di problematicità economica a livello globale. L’attenzione che si riserva ai BRICS e ai Paesi in via di sviluppo è infatti eccessiva se paragonata al vero problema che affligge attualmente l’economia mondiale: l’eurozona.
L’analisi lucida di Warner sbriciola la vulgata tradizionale, sia per ciò che riguarda la crisi Argentina – che come sappiamo NON è colpa del Peso – sia per quella della moneta unica europea, la cui esistenza non può essere giustificata fittiziamente come l’unico mezzo per indurre gli Stati Membri al riformismo d’emergenza.
Il controfattuale proposto è quello più sensato, soprattutto per l’Italia, e analizza le politiche economiche della Corea del Sud (già analizzato in maniera diffusa grazie ad Alberto Bagnai): dopo la crisi asiatica degli anni ’90, il piccolo stato schiacciato tra i giganti cinese e nipponico, ha iniziato un percorso di grandi riforme senza minimamente pensare a un peg con lo yuan o con lo yen, che lo hanno portato a una ripresa economica con pochi pari nell’Sud-Est asiatico.
L’austerità euroindotta sta distruggendo le economie di molti membri dell’eurozona, e così facendo sta minando la salute dell’economia mondiale. Il tapering della FED in arrivo porterà con tutta probabilità un ulteriore peggioramento delle prospettive di crescita nel meridione del vecchio continente, basate esclusivamente sull’ideologia mercantilista tedesca.
Rimane un interrogativo inevaso: quando avremo distrutto la domanda interna di 500 milioni di europei e nessuno comprerà dall’estero bond o prodotti europei, dove esporteremo? E che tassi pagheremo sui titoli del debito pubblico?
Di fronte all’autolesionismo dell’Eurozona, la Turchia e l’Argentina sono come delle lucciole in mezzo ai lampi di un temporale. Su una scala globale, esse non contano, e di per sé difficilmente potranno influenzare il più ampio quadro di quel che sta succedendo nel mondo. La minaccia più grande è ancora l’Europa, la quale, come ha fatto notare il Tesoro degli Stati Uniti, sta esercitando una pressione deflazionistica permanente sull’economia globale.
Le riforme strutturali che l’Europa appassionatamente immagina che la sua disciplina riucirà ad imporre, sono solo superficiali. In ogni caso avranno un impatto limitato in economie in cui la domanda interna è stata prosciugata. Da quando si è assoggettata ai diktat della troika, l’Irlanda è caduta ancora più in basso nella classifica internazionale della “facilità di fare impresa”, mentre l’Italia non riesce nemmeno a liberalizzare il servizio dei taxi senza che il paese si blocchi in un’ondata di proteste.
Una cosa in cui la crisi ha avuto successo, tuttavia, è stato di tagliare drammaticamente i salari nei paesi in difficoltà. Se abbattere gli standard di vita delle persone si conta come successo di politica economica, allora l’Europa sta stabilendo dei nuovi standard, e non importa che la riduzione dei salari nominali possa solo aumentare il peso del debito, mettendo i paesi ulteriormente a rischio di future crisi finanziarie. Non potendosi ormai più permettere di comprare i beni e servizi che essa stessa produce, l’Europa allora scarica il suo eccesso produttivo sul resto del mondo, e lo chiama progresso.
Difficilmente potrebbe esserci un approccio di politica economica più controproducente di questo. Non essendo in grado né di tornare indietro verso la sovranità e indipendenza del passato, né di andare avanti verso quella condivisione del debito che necessariamente sostiene qualsiasi unione monetaria funzionante, l’eurolandia si trova bloccata in una stagnazione distruttiva che essa stessa si è creata.
Tutti i grandi doni che l’Europa può dare al mondo – la sua creatività, l’industria, l’arte, la musica, le forme di governo, il suo stesso senso d’identità – derivano dalla sua diversità culturale, economica e nazionale. Distruggere questa infinita varietà per perseguire una qualche visione corporativa della competitività internazionale basata sull’abbattimento dei costi sembra essere diventato un obiettivo in se stesso. Persino l’assurda Kirchner pare una spanna al di sopra di una tirannia di questo genere.
Articolo ripreso dal sito Rischiocalcolato.it – Autore: Kappa di Picche