In principio era il “Verbo” e il “Verbo” era vicino a Dio e il “Verbo” era Dio. Comincia così il Vangelo di Giovanni. Trasponiamolo: in Principio era Amendola, e Amendola era figlio di Dio ed Amendola era Dio. Dagli anni Cinquanta, fino alla sua morte, è stato lui il “Dio” , il “Verbo” dei miglioristi, cioè di quella potentissima ala del Pci che ebbe una influenza enorme sullo svolgimento di tutta la politica italiana del dopoguerra, e che ancora oggi condiziona, orienta – spesso comanda – grazie all’ascesa di un suo esponente di punta, Giorgio Napolitano, alla Presidenza della Repubblica.
Amendola aveva una idea di politica che non si basava in modo decisivo sul pensiero e tantomeno sulla forza dei movimenti e sulle spinte che venivano dal basso della società. Aveva preso da Togliatti – che invece era anche un “produttore” molto forte di pensiero politico – la parte di “manovra” nella quale il segretario del Pci era maestro. Amendola credeva fortissimamente al centralismo democratico, alla ragion di partito, alla ragion di stato.
Pensava che fossero gli elementi essenziali della battaglia politica. Dentro la quale metteva anche la sua forza di conoscitore delle cose dell’economia, che lo spingeva a battaglie realiste e compatibili con la realtà capitalista. E così, quando, subito dopo la morte di Togliatti, il Pci si trovò di fronte alla novità politico-istituzionale del centrosinistra e alla novità politico-sociale dei grandi movimenti che stavano nascendo nella società, Amendola si gettò anima e corpo sul primo versante.
Correva l’anno 1966. E in quell’anno si celebrò un famosissimo congresso del Pci, il numero undici, nel quale si scontrarono aspramente Amendola e Ingrao. Amendola era stalinista e politicista. Ingrao era movimentista, amava l’analisi politica, e dopo aver seguito tutto il cursus honorum stalinista di Togliatti – specie durante gli anni tragici dell’Ungheria, cioè dell’invasione sovietica e del golpe rosso a Budapest – si era staccato dallo stalinismo e non apprezzava il centralismo leninista.
Il congresso fu una battaglia senza esclusione di colpi. Ingrao fu sconfitto. Tutti i dirigenti del Pci a lui vicini furono scacciati da ogni luogo di potere. Amendola però sapeva di non potere aspirare a fare il segretario del partito – una volta che si fosse esaurito l’interim di Luigi Longo, il “padre nobile” che era succeduto a Togliatti al momento della sua morte improvvisa nell’agosto del ’64, e che non era destinato a restare a lungo in quel posto – ma voleva decidere lui chi sarebbe stato il successore di Togliatti. Sentenziò: Giorgio Napolitano.
Naturalmente Amendola sapeva benissimo che Napolitano non aveva le doti per quel ruolo. Non era nemmeno una pallida, flebile controfigura del vecchio capo. Era solo un giovane seguace napoletano di Amendola (poco più che quarantenne), noto per una notevole piattezza di idee, per la scarsa brillantezza, per un ruolo essenzialmente burocratico che gli aveva sempre impedito di diventare un leader o – come si diceva allora – un dirigente di massa.
Eppure dalla parte di Amendola c’erano anche molti altri giovani assai più capaci, più carismatici, tra i quali poteva scegliere il suo delfino: Mario Alicata, Gerardo Chiaromonte, Emanuele Macaluso, solo per fare tre nomi importanti. Perché Amendola scelse Napolitano, e con quella scelta mise una ipoteca su tutta la politica italiana almeno fino al 2012, e cioè 32 anni dopo la sua stessa morte?
Non credo, francamente, che la scelta fu casuale. Amendola aveva quell’idea lì, quel progetto: un Pci che rinunciasse alla parte più radicale della sua dottrina sociale e che assumesse un ruolo di stabilizzatore della politica italiana, sterilizzando le zone più inquiete della politica e ottenendo in cambio dalla borghesia una delega a gestire il potere: non gli serviva più un leader , gli serviva piuttosto un burocrate forte, affidabile, capace di gestire il potere senza chiedersi il perché.
La cappa migliorista – che arrivò, nel 1980, a non condannare l’invasione sovietica dell’Afghanistan – impedì al Pci di realizzare davvero la sua democratizzazione, che probabilmente Berlinguer avrebbe voluto. E di trovarsi del tutto impreparato di fronte alla caduta del muro e alla svolta di Occhetto. Il Pci morì per questo: perché non poteva più vivere in un mondo democratico. E purtroppo con il Pci scomparve non solo la sua pulsione antidemocratica ma l’enorme ricchezza delle sue idee politiche e della sua carsica forza rivoluzionaria.
Cosa sopravvisse al Pci? Come Nosferatu, sopravvisse il migliorismo, che si ripresentò beffardo, uguale all’amendolismo ma sempre sotto nuove spoglie, durante tutti gli anni dell’Ulivo e dello spostamento a destra dei partiti di sinistra. Fino al trionfo finale. Alla nomina di Napolitano al Quirinale e poi al suo magistrale colpo di Stato di novembre. Quello è la conclusione, il trionfo, la sublimazione del migliorismo amendoliano. La presa del potere aggirando le elezioni e la democrazia e incuranti del programma politico. La presa del potere per la presa del potere. Potremmo anche rileggere di nuovo il vangelo di Giovanni. Così: in principio era il potere e il potere era vicino a Dio e il potere era Dio.
Fonte: sito Web “Gli Altri”