Il concordato preventivo ultima speranza prima del fallimento

Gli esperti se lo aspettavano, ma ora si ha la conferma. La riforma della legge fallimentare varata con il decreto sviluppo convertito 30 giorni dopo nella legge 134/2012 ha spalancato le porte ai concordati facili e infatti dall’11 settembre i tribunali italiani sono stati invasi da richieste di ammissione alla procedura del concordato preventivo e dei cosiddetti ‘concordati in continuità’ nei quali è la stessa impresa e lo stesso imprenditore che proseguono l’attività (in continuità appunto) dopo avere proposto ai creditori una sostanziosa rinuncia ai loro crediti.

Aspettiamo di vedere le prossime statistiche CERVED sui concordati, che comunque già nel 2° trimestre 2012 avevano registrato un incremento rispetto al passato.

Il motivo di questa corsa è duplice: da un lato la solita crisi che ha colpito un numero elevato di imprese per i noti motivi (cali di fatturato, riduzione di margini, eccesso di debito, mancanza di liquidità, pagamenti non ricevuti), dall’altro la facilitazione offerta dalla legge che consente a partire dall’11 settembre di fare domanda di concordato al Tribunale senza presentare alcuna documentazione a supporto della richiesta. La documentazione deve essere presentata entro 120 giorni dalla richiesta, ma a partire dalla data della domanda vengono automaticamente bloccate tutte le procedure esecutive da parte dei creditori, che si trovano così disarmati in attesa di sapere come e quanto l’impresa intende pagare i propri debiti.

Gli aspetti positivi della riforma superano i dubbi interpretativi e quelli negativi, ma è un dato quasi certo che nell’esplosione di domande di concordato si annidano anche situazioni discutibili che godranno di benefici temporanei per un periodo nel quale saranno possibili azioni di fuga e non solo di continuità. E’ pur vero che la modifica alla legge, tenendo conto forse di un certo numero di concordati e piani di ristrutturazione ‘allegri’ ha inasprito responsabilità e pene per coloro che appongono una firma di attestazione alle proposte, ma è anche vero che questa facilitazione ha scatenato appetiti di professionisti che suggeriscono ai loro clienti-imprenditori di presentare domande e poi si vedrà.

Le vittime designate di questa importante modifica della normativa e del processo che ha innescato sono le banche, non c’è ombra di dubbio. Vittime perché, salvo rare eccezioni, rappresentano la maggioranza dei debiti fatti dall’impresa in crisi, rispetto ai debiti erariali e soprattutto ai debiti verso fornitori. Vittime soprattutto perché imprenditori, professionisti e forse anche i tribunali partono dall’assunto che la banca ha le spalle larghe e può permettersi di patire perdite sui crediti che non di rado arrivano al 90% (vedi grafico). Grazie a questo sacrificio di terzi l’impresa in crisi può ‘in continuità’ ripartire alleggerita da un debito insopportabile, che tuttavia aveva contratto in piena libertà e sempre per legge avrebbe dovuto rimborsare integralmente.

Questa facilità nell’interpretare il grado di sopportazione delle banche è pericolosa. Può essere che non abbiano alternative, può essere che nell’ipotesi di fallimento le banche recuperino ancora meno, ma non sono del tutto convinto che il sistema bancario sia supinamente pronto ad accettare un diluvio di concordati votando proposte indecenti nelle quali proprio le banche fanno la parte del vaso di coccio, effettivamente una delle poche occasioni in cui succede.

Per chi come il sottoscritto crede nelle terapie di prevenzione della crisi e del fallimento, questa facilità di apertura delle procedure concorsuali è una mezza sconfitta anche se si può sperare che in molti casi consentirà di salvare posti di lavoro.

Per chi ritiene che le banche abbiano già abbastanza problemi con incagli e sofferenze, con la necessità di stanziare accantonamenti a fronte dei crediti non-performing, questo sviluppo della normativa fallimentare è una nuova tegola e un segnale di ulteriore allarme. Molto spesso il concordato è un’avviso inatteso, una notizia negativa su imprese non ancora classificate a rischio pieno (incaglio o sofferenza) e quindi su crediti pressoché privi di accantonamenti.

C’è solo da sperare che i tribunali siano poi più rigorosi nell’ammissione delle procedure in via definitiva, una volta acquisita la documentazione, (e già lo stanno facendo vedi grafico di Assonime) e che i professionisti che dovranno attestare le domande sotto la loro responsabilità (penale) siano ancora più rigorosi nello scarto di piani campati per aria, ma il destino del creditore-banca non cambierà molto: sarà chiamato a fare sacrifici e poi anche a decidere se continuare a seguire impresa e imprenditore che non è riuscito a onorare i propri impegni finanziari. E, fatto non banale, tutta quest’attività di recupero e partecipazione ai concordati ha costi elevati anche di tempo dedicato, nessun ricavo e molte frustrazioni.  Tutti buoni motivi per insistere nel suggerimento alle banche di evitarsi questo calvario e intervenire molto, ma molto prima.

 

Articolo ripreso dal sito linkerblog.biz