La modalità di remunerazione della consulenza finanziaria è senza dubbio uno dei temi più dibattuti in relazione al tema della “qualità” del servizio. La tesi implicita di questo dibattito è semplice quanto insidiosa: poiché una valutazione preventiva della qualità del servizio di consulenza è “impossibile”, allora è opportuno spostare il tema sul terreno della “fiducia” e quindi assumere come criteri di valutazione elementi esogeni alla sostanza del servizio stesso, tra i quali, appunto, la modalità di remunerazione.
In questa prospettiva, la trattazione del tema si focalizza sul grado del “conflitto di interesse” che le modalità di remunerazioni implicano: maggiore è il grado potenziale di conflitto di interesse, minore è la qualità potenziale della consulenza prestata.
I conflitti di interesse della “consulenza indipendente”: a ciascuno il suo.
Il “mantra” che ci viene continuamente proposto è che il fattore che caratterizza la consulenza finanziaria “indipendente” è la remunerazione. La tesi è che se il consulente viene remunerato esclusivamente dal proprio cliente, e non riceve retrocessioni né provvigioni da alcun intermediario o società prodotto, allora egli opera in “totale assenza di conflitti d’interesse”. E ciò, di per sé, è condizione sufficiente della qualità del servizio.
A questo proposito crediamo, in primo luogo, che questa pretesa sia semplicemente irragionevole: l’assenza di conflitti di interesse non rappresenta una condizione né sufficiente né necessaria per stabilire a priori la qualità del servizio consulenziale. Come dire: vi possono essere operatori che, pur agendo in una condizione di conflitto di interesse conseguente ad una remunerazione commissionale, possono erogare una consulenza professionalmente ineccepibile. Oppure operatori che, in “totale” assenza di conflitti di interesse, possono proporre una consulenza “scadente” che non corrisponde realmente agli obiettivi e agli interessi del cliente.
In secondo luogo, vorremmo riflettere su un’altra irragionevole pretesa ossia che un consulente finanziario “indipendente” operi in “totale assenza di conflitti di interesse”.
Innanzi tutto, se fosse così, non si capirebbe il motivo per il quale l’articolo 25 della delibera n. 17130 della CONSOB (il regolamento recante norme di attuazione in materia di consulenti finanziari persone fisiche e società di consulenza finanziaria) sviluppi ampiamente il tema dei conflitti di interesse. Ad esempio, il comma 1, indica che “i consulenti finanziari adottano ogni misura ragionevole, adeguata alla natura, alla dimensione ed alla complessità dell’attività svolta, per identificare i conflitti di interesse che potrebbero sorgere con il cliente o tra i clienti, al momento della prestazione del servizio di consulenza in materia di investimenti.” Ed il comma 5 evidenzia: “I consulenti finanziari istituiscono e aggiornano in modo regolare un registro nel quale riportano le situazioni nelle quali sia sorto o possa sorgere un conflitto di interesse che rischia di ledere gravemente gli interessi di uno o più clienti.”
Dunque i potenziali conflitti di interesse tra il consulente finanziario ed il proprio cliente esistono anche se il primo viene remunerato esclusivamente dal secondo.
Forse è bene affermare, una volta per tutte, che il tema del conflitto di interesse riguarda qualsiasi attività professionale che comporti, necessariamente, una asimmetria informativa tra il professionista ed il suo cliente.
A questo proposito è particolarmente chiarificatore un contributo di Pietro Ichino (Corriere della sera, “Nuove regole per gli avvocati. Chi difende i clienti dai difensori?”) che ha provocato un acceso dibattito in merito al conflitto di interesse nella professione forense. Ne riportiamo uno stralcio, nel quale Ichino evidenzia il tema del conflitto di interessi come una questione cruciale: “…il conflitto di interessi in cui l’avvocato si trova ogni volta che gli si aprono davanti due o più strade per la difesa del cliente e la strada più vantaggiosa per quest’ultimo non è la più vantaggiosa per l’avvocato stesso. Nella maggior parte dei casi, il cliente non è in grado di controllare efficacemente le scelte del difensore, come il paziente non è in grado di controllare le scelte del medico. Glielo impedisce la netta asimmetria informativa che caratterizza qualsiasi rapporto professionale: il professionista è colui che sa, il cliente è tale proprio perché nella materia specifica non sa. Per esempio, fra la transazione e il ricorso all’autorità giudiziaria, o a un arbitrato, la scelta dell’avvocato può essere dettata più dalle sue prospettive di guadagno che dall’interesse effettivo del cliente, il quale nella maggior parte dei casi non è in grado di valutare con piena cognizione i vantaggi dell’una o dell’altra scelta. Lo stesso accade nel rapporto tra medico e paziente, quando si tratta di scegliere tra diversi possibili mezzi diagnostici o protocolli terapeutici, di cui alcuni siano i più lucrosi per il terapeuta ma non i più appropriati nel caso specifico.”.
A partire da queste considerazioni vorremmo ricordare la definizione di “conflitto di interesse”: è la situazione in cui un interesse secondario, privato o personale, interferisce, ovvero potrebbe tendenzialmente interferire, o appare avere la potenzialità di interferire, con l’abilità di un “consulente finanziario” ad agire in conformità con l’interesse primario del proprio “cliente”, assumendo che il “consulente finanziario” abbia un dovere, derivante dalla legge, da un contratto o da regole di correttezza professionale, nel fare ciò.
Desideriamo ora esemplificare come il conflitto di interesse riguardi anche la prestazione professionale del consulente finanziario, per ciascuna delle tipologie di remunerazione erogata dal suo cliente.
Ad esempio, nel caso il fee only sia basato su un compenso percentuale rispetto alle risorse gestite, come potrebbe essere gestito il dilemma di consigliare o meno di accendere o estinguere un mutuo per l’acquisto di un immobile? L’operazione in sé è in palese conflitto di interesse in quanto ciò influirebbe sulla remunerazione della consulenza che potrebbe essere nel primo caso maggiore e nel secondo caso ridursi, anche significativamente. E che dire della valutazione di una polizza di rendita immediata per l’integrazione pensionistica o di effettuare un investimento immobiliare?
Questi tipi di operazioni possono, in determinate condizioni, essere molto utili per i clienti ma comportano una diminuzione delle risorse finanziarie gestite e dunque una riduzione della remunerazione del consulente. Non solo. Il maggior rendimento prospettico della componente azionaria, rispetto a quella obbligazionaria, potrebbe indurre il consulente a fornire indicazioni di asset allocation maggiormente aggressive, al fine di incrementare anche la propria base di remunerazione, aldilà della opportunità, o necessità, di servire al meglio le esigenze e gli obiettivi del suo cliente. E ciò vale, a maggior ragione, per il metodo di compenso basato sulle commissioni di performance…
Nel caso il fee-only sia basato sulla remunerazione oraria, è evidente che il conflitto di interesse si possa manifestare nel rendere il lavoro di consulenza più duraturo del necessario. Mentre nel caso di un compenso “flat” potrebbe, all’incontrario, incoraggiare il consulente ad investire meno tempo nell’attività e rendere meno accurato il servizio. E questi modelli di remunerazione possono influire sulle stesse indicazioni di asset allocation che potrebbero essere fornite dal consulente.
Ad esempio, una allocazione degli investimenti più prudenziale di quello che potrebbe essere utile per gli obiettivi del suo cliente: il vantaggio del consulente sarebbe in termini di riduzione della complessità di gestione comportamentale del suo cliente in situazione di crisi di mercati. Perché proporre allocazioni più aggressive quando eventuali perdite contingenti potrebbero minare lo stesso rapporto professionale e mettere a repentaglio fiducia e remunerazione della parcella?
Queste considerazioni portano ad una conclusione evidente: qualsiasi rapporto professionale implica un conflitto di interesse, ossia una “interferenza” che si presenta con diversa intensità, a seconda dell’interesse secondario del consulente finanziario e della rilevanza assunta da tale interesse.
E’ quindi ragionevole focalizzare l’attenzione più sulle modalità che possono consentire il riconoscimento e la gestione dei conflitti di interesse che continuare insensatamente a dichiarare di esserne “totalmente” immuni…
Anche perché una vasta letteratura evidenzia che i comportamenti non etici nelle attività professionali si possono basare su processi psichici inconsapevoli. Il tema è relativo ad un errore cognitivo che viene definito come “illusione di obiettività” che porta gli individui a vedere se stessi come più imparziali e più equilibrati di quello che realmente sono. Questa distorsione cognitiva è stata comprovata in diversi campi professionali ed in diversi modi. Ad esempio, sono particolarmente illuminanti gli studi di Armor (1999) nei quali l’85% dei soggetti degli esperimenti si è valutato essere più obiettivo ed imparziale della media del proprio gruppo di riferimento! E nonostante venissero fornite prove oggettive del contrario, i soggetti continuavano ostinatamente a confermare l’illusione di obiettività nel proprio giudizio. Proponiamo una domanda: nella tua attività di consulente sei obiettivo ed imparziale nel fornire il servizio al cliente? Vero o falso?
Il commento alla risposta lo prendiamo in prestito da una autorevole pubblicazione (Banaji et al, 2003). “Se hai risposto vero, ecco una verità scomoda: probabilmente non lo sei. La maggior parte di noi crede che siamo etici e imparziali. Ma, ironia della sorte, solo quelli che sono consapevoli del loro potenziale di comportamenti non etici potrebbero diventare i professionisti che aspirano ad essere.” Queste riflessioni potrebbero portare alla conclusione di guardarsi da coloro che sbandierano fieramente di operare in “totale assenza di conflitti d’interesse”… Perché, come sostengono gli autori della pubblicazione, probabilmente non lo sono…
Altre strade per la protezione degli utenti della consulenza finanziaria.
Abbiamo visto come il modello di remunerazione da parte del cliente non possa essere la panacea al problema centrale che è quello della protezione degli interessi degli utenti in una relazione professionale di consulenza finanziaria.
Probabilmente un caso nel quale la consulenza potrebbe meritare davvero le caratteristiche di “imparzialità” ed “indipendenza” è che essa sia fornita da un soggetto pubblico, che agisce per finalità sociali, e che sia gratuita per i fruitori. Come nel caso di “Money Advice Service” nel quale la Pubblica Amministrazione e l’Autorità di controllo inglesi sono scesi direttamente in campo per fornire una adeguata protezione ai cittadini, in particolar modo per quelli che non posseggono strumenti culturali per difendersi da comportamenti non etici degli operatori. Con buona pace degli IFA (i consulenti indipendenti inglesi) che hanno vivacemente protestato per la campagna pubblicitaria di “Money Advice Service” per “la sua pretesa di offrire consulenza indipendente, imparziale e gratuita” per i cittadini britannici, in quanto l’autorità pubblicitaria ha rigettato tutte le denunce presentate.
Ma vi possono essere altre strade che possono percorrere i consulenti. Come quella di essere conforme alla norma tecniche di qualità, la UNI ISO 22222, che definisce in termini operativi e comportamentali il processo di pianificazione finanziaria personale e specifica anche i requisiti di comportamento etico, competenze ed esperienza per i pianificatori finanziari personali. La Norma UNI ISO 22222 indica doverosamente nei principi etici che “…i pianificatori finanziario-economico-patrimoniali personali devono comunicare e gestire onestamente tutti i conflitti di interesse”.
Ma non impone, sensatamente, la condizione organizzativa di indipendenza o modelli di remunerazione “fee only” per ridurre i conflitti di interessi come presupposti per erogare un servizio consulenziale di qualità. Infatti, la specifica tecnica UNI TS 11348, che fornisce una serie di indicazioni per l’applicazione della UNI ISO 22222, recita che “..la presente specifica tecnica è applicabile a tutti coloro che professionalmente offrono ai clienti servizi di consulenza personalizzati (generici o specifici) in relazione a tutte le aree di bisogni finanziari, economico e patrimoniali, indipendentemente dal loro status occupazionale o normativo anche se organizzati in forma di rete, per esempio banche, società assicurative, società di intermediazione mobiliare”.
Così tutte le organizzazioni e gli operatori, senza esclusione alcuna, possono erogare servizi consulenziali di qualità, a patto di conformarsi ai requisiti delle norme tecniche.
L’applicazione delle norme tecniche da parte degli intermediari consente di acquisire concretamente una forte credibilità derivante dalla l’autorevolezza della “terzietà”, ossia l’agire in base a principi accettati dall’intera comunità internazionale e non in base a modelli autoreferenziali. Ciò significa che il tema della “gestione del conflitto di interesse” può essere risolto, in gran parte, alla radice. La qualità della educazione e della consulenza finanziaria si sostanzia nella “obiettività del servizio”, nell’operare nell’interesse dell’utente, indipendentemente dal soggetto (promotore finanziario, consulente finanziario, operatore bancario,…) che la eroga o dalla modalità di remunerazione da parte del cliente.
E la obiettività del servizio di consulenza si può dimostrare solo con la conformità alle norme tecniche. In questo modo il tema si incentra decisamente sulla qualità della consulenza “in sé”, indipendentemente dalla condizione del soggetto che la eroga o dalla modalità della sua remunerazione. A noi sembra che questa sia una soluzione ragionevole, consistente, e non “ideologica”, al problema.
Articolo di G_Megale
Fonte: linkedin.com/pulse/conflitto-di-interesse-si-grazie-gaetano-megale
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