In Cina si sta assistendo ad un graduale aumento del costo del lavoro. E ne potrebbe derivare una radicale inversione di tendenza: rappresentata da migliaia di posti di lavoro che stanno ritornando nei confini degli Stati Uniti.
Si tratta del cosiddetto fenomeno del “re-shoring”: una sorta di “marcia indietro” rispetto alla delocalizzazione imperante degli ultimi anni. A offrirne un’analisi – riportata stamattina sulle colonne del Financial Times – è la società di consulenza Boston Consulting Group. Si tratta di un fenomeno che riguarda soprattutto i dipendenti del comparto industriale. E che potrebbe contribuire alla creazione di tre milioni di posti di lavoro negli Usa entro il 2020.
Senza dubbio ciò andrà a incidere sull’enorme deficit della bilancia commerciale degli Stati Uniti, che nel 2010 ammontava a 360 miliardi di dollari (ad eccezione del petrolio): e, secondo le ultime stime, potrebbe ridursi a 260 miliardi entro la fine del decennio. Proprio il disavanzo commerciale con la Cina (schizzato alla quota di 273 miliardi di dollari nel 2010) in questi giorni è al centro del dibattito politico: martedì prossimo il Senato statunitense si esprimerà su una controversa bozza di legge per l’imposizione di nuove tariffe sull’importazione di beni e prodotti cinesi.
Non sarà sorda a questi dati l’amministrazione guidata da Barack Obama, che medita di puntare proprio sulla produzione industriale per raggiungere il tanto atteso rilancio dell’economia, ancora stagnante a seguito della crisi. Tanto più in presenza di una disoccupazione che la stessa Casa Bianca ha definito «inaccettabile». Nella giornata di oggi è in programma la diffusione delle statistiche relative ai nuovi posti di lavoro creati nel mese di settembre. Per ora le previsioni parlano di circa 60 mila unità, cifra che non sarebbe sufficiente a incidere su un tasso di disoccupazione che ad agosto continuava ad attestarsi al 9,1% della forza lavoro.
Articolo ripreso da valori.it