Qualche giorno fa il Presidente del Consiglio ha parlato dell’intenzione di avviare un importante processo di trasformazione industriale ed infrastrutturale riguardante tutti gli istituti di credito italiani e sopratutto i loro dipendenti in eccesso.
Quanto affermato è tutto molto corretto, tranne che per un aspetto: a parere di chi scrive, i 150 mila tagli di cui si a’ parlato non si materializzeranno in 10 anni bensì in un arco temporale meno esteso.
Si tratterà di una fase molto delicata: lo stato dovrà infatti garantire l’implementazione di tutte le misure poste a presidio della dignità personale di ogni singolo bancario in uscita dal settore.
I licenziamenti altro non rappresenteranno che il risultato ultimo di un progresso tecnologico che da circa 40 anni continua a modellare, ribaltare, migliorare, semplificare il mondo bancario/finanziario e più di recente anche altri settori.
Intendiamoci: non che l’attuale tonfo borsistico delle banche italiane sia da imputare unicamente al numero dei rispettivi dipendenti quale espressione di un modello di business superato, essendo ben altre le cause primarie della crisi: tassi bassi (quindi margini di intermediazione minori); crescita del PIL abbastanza ridicola (quindi permanenza di un elevato stock di NPLs) visti l’attuale costo del denaro, il livello del cambio (€/$) ed il prezzo del petrolio; casi di sgovernance clamorosi; fair play regulation buttata nel cesso al fine di comprare tempo piazzando presso comuni cittadini le subordinate; vigilanza informativa ferma al pro forma; vigilanza ispettiva versante in queste condizioni; finanziamenti accordati all’ amico dell’ amico dell’amico prescindendo dagli esiti delle analisi fondamentali, qualitative, quantitative del merito creditizio; induzione all’acquisto di azioni tramite accensione di prestiti baciati; potenziali effetti sistemici generati dalla disciplina del bail-in (senza voler esprimere qui valutazioni di merito che ci condurrebbero off-topic) dapprima accolta con tanto di fanfara dai sempre svegli sostenitori del «ce lo chiede l’Europa» e poi tacciata d’incostituzionalità non appena percepito l’incremento del rischio di concreta applicazione proprio con riguardo alle banche da essi gestite, ecc.
Ad ogni modo, la riduzione del numero di occupati che osserveremo nei prossimi anni presenta un’ origine esogena, tecnologica, legata al progresso scientifico spesso privo di qualsiasi originaria affinità con il mondo bancario.
La natura intimamente matematica e tecnologica dell’attività bancaria costringerà i banchieri italiani a completarne la digitalizzazione, aprendosi a tutta quella schiera di soggetti attualmente condannati ad essere underbanked o unbanked dall’ impiego -da parte delle banche italiane e non- di metodi tradizionalmente privi di quella flessibilità che consentirebbe loro di risolvere sia il problema del “Know Your Customer” sia quello legato alla valutazione del merito creditizio. Piaccia o meno, il mercato impone oggi di completare la terza tappa del viaggio intrapreso a metà degli anni ’70.
La prima, popolata dagli “incrementalists”, vide Citibank introdurre in via sperimentale gli ATMs (i comuni bancomat). Negli anni ’80, invece, vennero eseguiti i primi esperimenti aventi ad oggetto l’ on-line banking grazie all’attività di ricerca condotta dalla stessa Citi e dalla Chemical Bank, pioneristici utenti dei servizi Minitel (Francia) e Prestel (UK).Quindi, nel 1996, parallelamente alla progressiva diffusione di internet, nasceva NetBank: la prima vera banca on-line.
La seconda tappa, quella dei “digital hybrids”, sperimentò un forte incremento di banche strutturate sul modello NetBank, caratterizzate da sistemi di front end innovativi ma da infrastrutture di back/middle office e da sistemi di valutazione dei rischi obsoleti. Erano -ed in alcuni casi restano- banche perlopiù ibride, in ragione del supporto loro garantito dagli incumbents con riguardo all’ attività di back end: ad esempio, Simple Bank (nata nel 2009) aveva comeback end Bancorp. Altri operatori, come Fidor Bank (Germania), Atom Bank (UK), LHV Pank (Estonia), DBS Digibank (Singapore) si sono dotati, nel tempo, di infrastrutture IT specificatamente realizzate per il mondo bancario, conducenti a forti risparmi sia nella fase di costruzione che di mantenimento se confrontante con quelle non purpose built. Tuttavia, le digital hybrids continuano a far uso di databases centralizzati e di protocolli operativi abbastanza vetusti, incarnando una soluzione intermedia tra la tradizione ed il futuro.
La terza tappa, quella dei “nativi digitali”, vedrà l’accesso al mondo bancario di 2.5 miliardi di consumatori e di oltre 45 milioni di PMI underbanked/unbankend. E’ in questa fase che scopriremo la natura della risposta che la società ed il mercato forniranno ad alcuni dei quesiti posti anche dal MIT (Massachusetts Institute of Technology) in una recente pubblicazione: «Quale ruolo avranno, realmente, le banche nel nuovo mondo? E’ giunta la fine delle banche per come conosciute sino ad ora?».
Articolo ripreso dal blog traglisqualidiwallstreet su blogspot.it
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.