La rabbia degli industriali per l’uso facile del nuovo concordato con riserva è salita al punto che la protesta formale ha raggiunto i vertici di Confindustria i quali richiedono a gran voce modifiche per frenare gli abusi frequenti. I presidenti delle sezioni fallimentari dei tribunali, in primis quello di Milano, sorridono amaramente perché avevano già previsto tutto, quando si erano espressi con i loro pareri prima della riforma del governo Monti, che ha sottratto loro la discrezionalità di rifiutare le prenotazioni dei cosiddetti concordati in bianco’ ex-art.161 6° comma LF.
E in mezzo a questo fuoco incrociato, e ai dati pubblicati da chi registra le domande di concordato, arriva immancabilmente un articolo scritto da due professori e pubblicato da La Voce.info con il titolo: “Chi ha paura del concordato “in bianco?” entro il quale ci sono affermazioni come queste:
DOV’È L’ABUSO?
Innanzitutto occorre capire in che cosa consistano gli abusi lamentati, cosa tutt’altro che chiara, e quale sia la loro incidenza in rapporto alle migliaia di casi di imprese in crisi.
Certamente non è un abuso cercare di risolvere la crisi con un concordato preventivo, tanto più che questo non fa venir meno la punibilità dei reati “fallimentari”, che tali restano anche in caso di concordato, come ha dimostrato il caso del San Raffaele di Milano. Né è abuso, in sé, offrire ai creditori una percentuale di soddisfazione bassa, se è comunque meglio del fallimento (nel quale i creditori ottengono in media poco o niente, e con anni di ritardo). Per di più, il concordato dà l’ultima parola proprio ai creditori, che sono liberi di bocciare la proposta, particolarmente quando l’accesso alla procedura è fatto ad arte, per recar loro danno. Anzi, la procedura italiana ha il pregio di fissare tempi brevi, che evitano gli abusi – questi sì – riscontrati all’estero ove, attraverso contrattazioni logoranti, il debitore può estorcere concessioni generose.
L’unico caso di possibile “abuso” – certo non nuovo e certo non solo italiano – è quello della“sindrome della fenice”, in cui il debitore usa il concordato per alleggerirsi dai debiti e ricominciare da zero. Ma su questo abuso il concordato “in bianco” non incide quasi per nulla, nonostante quanto sembri trasparire dalle critiche.
E poi aggiungono:
Il fatto che una parte rilevante (si dice circa la metà) dei concordati “in bianco” si concluda con il fallimento può essere considerato del tutto fisiologico: la fase iniziale della procedura – analogamente a quanto accade in ordinamenti esteri – serve anzitutto a fare chiarezza. E se fare chiarezza porta al fallimento, è meglio che ciò accada prima piuttosto che dopo anni di aggravamento del dissesto.
Il concordato “in bianco” è inoltre realistico: fino al 2012 l’ammissione alla procedura richiedeva – in teoria – la presentazione immediata del piano di risanamento. In pratica, il debitore finiva per essere ammesso comunque sulla base di un simulacro di piano, in attesa che il piano “vero” fosse preparato (e asseverato) dopo. Classica soluzione all’italiana, formalmente rigida, flessibilissima nella sostanza e imprevedibile nell’esito. L’aleatorietà azzoppava, di fatto, l’intera procedura.
Il nuovo meccanismo ottiene tre risultati innovativi.
Primo, si sostituisce un meccanismo opaco con uno trasparente: la situazione dell’impresa emerge – in tempi brevi – e costringe tutti, debitore e creditori (incluse le banche, costrette a far apparire rapidamente le sofferenze nei loro bilanci) a guardare in faccia la realtà di una crisi dura, che morde l’economia reale e costringe a prendere provvedimenti “strutturali”. I dati Cerved mostrano che due terzi delle imprese che hanno fatto domanda di concordato in bianco sono ancora operative e non in liquidazione, e ciò testimonia che l’obiettivo di far emergere prima il dissesto dei conti dell’impresa è stato centrato.
Dov’è l’abuso? Quello che i nostri candidi professori non hanno capito -perché non è dato sapere con quante crisi e domande di concordato di piccole e medie imprese abbiano avuto a che fare- è che questi concordati presentati ai tribunali senza piano (né simulacro, né buono…) sono stati la manna per chiunque avesse in animo di scaricare i suoi problemi ed errori, o peggio qualche truffa- ma non potendo ottenere alcuna protezione fino all’ammissione del concordato o di un piano di ristrutturazione, era esposto ad azioni spesso più che giustificate di creditori imbrogliati, tra cui anche le banche. In molti casi si sono preparati bene attendendo settembre 2012 per precipitarsi a depositare domande. E altri lo stanno facendo ancora mentre scrivo. Non saranno la maggioranza, ma sono tanti, troppi.
Quello che i professori non hanno visto dalle loro cattedre è il danno subito da imprese che hanno ricevuto ordini e ha consegnato merce al furbetto pochi giorni prima del deposito della domanda in bianco gonfiandogli il magazzino senza essere pagati. E oggi si ritrovano un credito bloccato ed esposto alla falcidie senza potere più alzare un dito per difendersi. Nè avranno visto tutte le manovre preparatorie che fanno scomparire pezzi dell’attivo societario che poi, forse, toccherà ai giudici del tribunale o ai commissari andare a stanare. Tantomeno conoscono-o fingono di non conoscere- il tipo di suggerimenti che arrivano da una certa parte (fortunatamente minoritaria) di professionisti del ‘concordato che risolve tutto’.
Potrei allora consigliarli questa lettura tratta dal Sole 24 Ore del 24/5 che descrive perfettamente cosa sta succedendo:
«Nei primi mesi del 2013 ho trattato più concordati che negli ultimi 7 anni» dice un giudice fallimentare di Roma. E allora si capisce perché una legge voluta per rilanciare l’economia finisca invece per rovinarla. Si capisce che l’occhio rivolto alle imprese debitrici e in difficoltà è stato un occhio strabico e ha finito per penalizzare i creditori, spesso altre imprese, ingenerando un effetto domino micidiale per l’economia.
Accade infatti che le norme sul concordato preventivo per sostenere le aziende con prospettive di rilancio, approvate l’anno scorso con il decreto sviluppo convertito nella legge 7 agosto 2012, siano spesso utilizzate solo a fini dilatori, per ritardare la dichiarazione di insolvenza.
L’imprenditore moribondo può essere mantenuto in vita fino a un massimo di sei mesi, con sospensione delle istanze di fallimento già presentate e delle revocatorie fallimentari, ma questo sforzo estremo di continuità aziendale, se in alcuni casi è virtuoso, in molti altri è pura tattica, perché tanto il concordato che l’accordo per la ristrutturazione dei debiti vengono usati solo per differire il fallimento. Nel frattempo, però, quell’impresa ha operato sul mercato, ha stipulato contratti, chiesto crediti. Ha trascinato nei suoi guai altre imprese. Sane.
di Donatella Stasio – Il Sole 24 Ore –
Non è affatto fisiologico che gran parte dei concordati presentati si concludano con l’istanza di fallimento. E’ semmai la riprova che non c’era nessun piano serio, che è toccato ai giudici constatare l’assenza di qualsiasi presunto presupposto per gestire ordinatamente la crisi con un piano che non sia solo basato sul massacro dei creditori. Gli istituti per gestire piani di ristrutturazione e concordati c’erano anche prima della riforma. Questa ‘leggerezza’ usata nel consentire domande inadeguate sarà sicuramente corretta presto, a dispetto dei professori, perché le imprese si sono accorte che per proteggere qualche crisi ne vengono create molte di più in modo ingiustificato.
E ancora una volta vale il principio che solo chi conosce la realtà del marciapiede e vede cosa sta accadendo dalla introduzione del concordato in bianco avrebbe titolo a parlare. Ma l’Italia non gira ancora così e anche le modifiche introdotte nel “Decreto del Fare” che aggiungiamo non hanno cambiato molto la situazione.
Articolo di Fafio Bolognini – ripreso da linkerblog.biz