Il fallimento dell’imprenditore occulto

È dibattuta, nel campo del diritto fallimentare, la figura dell’imprenditore occulto e la possibilità di attribuire a questi la titolarità – e quindi la responsabilità – dell’impresa fallita.

Come è noto, l’imprenditore commerciale viene definito tale nel momento in cui esercita una attività finalizzata alla produzione o alla scambio di beni e servizi, con i caratteri della professionalità e dell’economicità; accade però spesso che sia lo stesso imprenditore ad organizzare l’attività in modo tale da mantenere celata la sua titolarità, avvalendosi in tal caso di un prestanome, il quale figurerà come titolare (fittizio) dell’impresa, oppure fingendosi lui stesso institore di un’impresa altrui (fittizia anche questa, in quanto l’impresa è sua), per poter così sottrarsi alle responsabilità commerciali ed agli effetti giuridico – patrimoniali che deriverebbero da un eventuale fallimento della società.

La dottrina dominante ha sempre negato la possibilità di configurare la fattispecie del fallimento dell’imprenditore occulto, affermando che chi fallisce è solo il prestanome, la cosiddetta “testa di legno”, sul quale è configurabile l’ufficio del mandato senza rappresentanza [1].

Quindi, secondo tale tesi, chi fallisce è unicamente il prestanome, questo perché, citando testualmente Ferrara «colui per conto del quale altri esercita un’impresa a nome proprio non è imprenditore, perché l’impresa non si imputa giuridicamente a lui».

Vi è però anche un’opposta teoria, che ha raccolto sempre maggiori consensi, la quale prevede, ovviamente, anche il fallimento dell’imprenditore occulto.

In base a quest’ultima tesi si giunge ad una sostanziale parificazione tra l’imprenditore occulto ed il prestanome sul piano della responsabilità d’impresa: per cui non solo l’imprenditore occulto risponderà in solido con il prestanome, ma sarà allo stesso modo assoggettabile al fallimento.

Per sostenere tale impostazione risulta però necessario un passaggio, ossia l’accettare la possibilità del fallimento non solo dei soci occulti di una società occulta, ma anche della stessa società, in modo tale che si giunga alla conclusione che, in qualunque situazione di preposizione in cui un imprenditore non spenda il proprio nome, sia comunque soggetto alla responsabilità ed alla procedura fallimentare non solo colui il quale il proprio nome è stato speso nei confronti dei terzi, ma anche la società o la persona fisica rimasta a questi celata.

Con una recente sentenza, il tribunale di Busto Arsizio [2] ha chiarito quanto segue: se, dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore apparentemente individuale, risulti che egli era socio di una società di fatto, anche se occulta, esercitante la stessa impresa, deve essere dichiarato il fallimento della società e di altri soci occulti, senza che sia necessario provare l’insolvenza di questi ultimi, essendo il loro fallimento conseguenza automatica del fallimento della società.

[1] Art. 1075 cod civ.: “Il mandatario che agisce in proprio nome acquista i diritti e assume gli obblighi derivanti dagli atti compiuti con i terzi, anche se questi hanno avuto conoscenza del mandato. I terzi non hanno alcun rapporto col mandante. Tuttavia il mandante, sostituendosi al mandatario, può esercitare i diritti di credito derivanti dall’esecuzione del mandato, salvo che ciò possa pregiudicare i diritti attribuiti al mandatario dalle disposizioni degli articoli che seguono”.

[2] Trib. Busto Arsizio, sent. del 16.06.2010 e, in senso conforme sulla fallibilità del socio occulto, C. App. Firenze, sent. n. 1705 del 25.11.2008; Cass. sent. n. 13421 del 23.05.2008; Cass. sent. n. 7075 del 05.04.2005; Cass. sent. n. 11562 del 09.05.2008.

Articolo ripreso dal blog “Gli Squali di Wall Street” su blogspot.it