L’Europa deve agire, il tempo è finito. Il richiamo arriva da Pechino, sulla prima pagina del People’s Daily, organo del partito comunista al potere. «L’Europa è ad un punto cruciale della sua storia. Deve dimostrare grande saggezza, coraggio e risolutezza, e agire il prima possibile», si legge sull’editoriale non firmato, ma scritto, dice la Reuters, da Qin Hong, esperto in relazioni internazionali. «Se sarà capace di creare un’unione fiscale, l’Europa girerà la ruota della fortuna, ma se la decisione arriverà troppo tardi, alcuni Stati membri potrebbero essere costretti ad uscire dall’euro».
Sebbene nessun politico del Celeste Impero abbia mai usato termini simili, il messaggio è piuttosto chiaro, e arriva dopo un altro editoriale in cui il “Quotidiano del popolo” sosteneva che la Cina non era la panacea per i mali di Bruxelles, anzi: «Soltanto l’Europa può salvare sé stessa, ciò che le manca non sono i soldi, ma il coraggio politico. I governanti europei, dipendenti dall’opinione pubblica, concentrati sulle elezioni o in lotta per il potere, hanno adottato soltanto misure temporanee».
La critica, irrituale rispetto al tradizionale aplomb degli alti funzionari del partito, arriva all’indomani del vertice all’Eliseo tra il primo ministro greco, George Papandreou, e il presidente francese Nicolas Sarkozy. «Se fallisce la Grecia – ha detto quest’ultimo – fallisce l’Europa», ribadendo che sul tavolo non c’è nessun piano che preveda il default di Atene. La Cina possiede le riserve valutarie più ampie al mondo, pari a 3.200 miliardi di dollari, dei quali, secondo gli analisti, un quarto è denominato in euro. Investimenti sui quali cresce la preoccupazione, come ha dichiarato presidente della China investment corporation, fondo sovrano del gigante asiatico «abbiamo bisogno di vedere al più presto il piano che l’Europa sta delineando per salvare l’euro», ha detto ieri Jin Liqun, presidente del comitato di controllo della China investment corporation, il fondo sovrano del gigante asiatico, aggiungendo che: «Non possiamo dare il nostro supporto senza una due diligence».
Alla Cina non piace il ruolo del cavaliere bianco, come quando sui rumor di un interessamento del fondo sovrano Cic per i bond italiani il cambio dell’euro è passato da 1,3680 a 1,3687 nei confronti della moneta statunitense. «Gli stati europei intrappolati nella crisi del debito sono tutti sviluppati, con un Pil pro capite che supera i 30mila dollari l’anno, mentre la Cina è ancora un Paese in via di sviluppo, con un Pil pro capite di soli 4.400 dollari l’anno, con 150 milioni di persone che vivono ancora sotto la soglia della povertà fissata dall’Onu». Secondo i dati citati dal People’s Daily, la Cina ha investito 6 miliardi di dollari in Europa nel 2010, con un incremento del 100% sull’anno precedente, creando 37.700 nuovi posti di lavoro. In salita anche le importazioni nella bilancia commerciale di Pechino: +23% nel primo semestre 2011 rispetto allo stesso periodo del 2010, a quota 65,6 miliardi.
Nonostante i grandi numeri, lo sviluppo del Dragone non è esente da disequilibri. Due giorni fa, un report della banca francese Société Générale ha sottolineato la crescita esponenziale del sistema bancario ombra (cioè non regolamentato) a Wenzhou, nella regione dello Zhejiang – luogo dove è nata la piccola impresa cinese – a causa della politica economica adottata dalla banca centrale cinese (People’s bank of China) sui tassi d’interesse e gli stringenti requisiti di capitalizzazione imposti alle banche. Le stime di Société Générale parlano di 3-4mila miliardi di yuan (350 miliardi di euro), su un totale di 52.400 miliardi di yuan prestati dal sistema bancario ufficiale, nonostante i crediti deteriorati rimangano tuttora bassi, tra lo 0,5% e l’1% degli impieghi, problemi di liquidità cominciano a manifestarsi a macchia di leopardo nel Paese. Per Liqun, i rischi maggiori si riscontrano nel settore immobiliare e nei veicoli finanziari dei governi locali.
Alcuni analisti contattati ieri dall’agenzia stampa Xinhua hanno stimato che l’inflazione a settembre si sia assestata al 6,2%, mentre dalle sale trading londinesi si stima che lo yuan sia sottovalutato del 10-20 per cento. Nonostante questo, dai piani alti della People’s bank of China non hanno intenzione di alzare ulteriormente i tassi d’interesse, come chiesto più volte, ufficiosamente, dagli Stati Uniti, suscitando la risposta piccata del ministro degli esteri Yang Jiechi, che ha chiesto di non “politicizzare” le decisioni economiche di Pechino.
Articolo ripreso da linkiesta.it