Il Presidente di Confindustria parla del futuro dell’Italia

Il ruolo fondamentale che le banche hanno avuto nel finanziare la crescita dell’industria deve essere rifondato su basi nuove, dal giudizio sul merito di credito alle istituzioni di garanzia. L’altra gamba del rilancio sono l’innovazione e la qualità dei talenti. Ecco la ricetta di Giorgio Squinzi per il futuro dell’Italia.

Dopo anni bui finalmente si comincia a vedere qualche segno positivo. Il 2014 sarà l’anno dell’inversione di rotta?

L’economia italiana è da un anno in sostanziale stagnazione, dopo la doppia recessione che ha minato, in misura significativa, la base produttiva e quindi condizionato la tempistica e la velocità di uscita dalla crisi. Il costo è pesante. Rispetto ai livelli pre-crisi: il PIL procapite è diminuito di quasi l’11%, pari a 2.900 euro per persona; i livelli di produzione nell’industria sono inferiori di quasi un quarto, di oltre il 40% nelle costruzioni; l’occupazione è diminuita di quasi 2 milioni di unità. Non stiamo sperimentando normali fasi del ciclo economico bensì cambiamenti strutturali che posizionano il Paese su basi e traiettorie più basse e diverse. Si tratta di un new normal con il quale dobbiamo fare i conti.

Il 2014 non sarà l’anno di una vera inversione di rotta,  prevedendo una variazione del PIL molto bassa (+0,2%). È possibile, invece, che nel 2015 – nel quale stimiamo un incremento del PIL dell’1,0% – ci sia un cambiamento in meglio, anche se non corposo come vorremmo.
Qualche primo segnale positivo si è iniziato a intravedere nelle pieghe delle statistiche e nel sentimento degli imprenditori con i quali quotidianamente mi confronto. Nel primo trimestre di quest’anno la spesa delle famiglie è aumentata per la prima volta da inizio 2011 e gli investimenti in macchinari e attrezzature, dopo tre anni di flessione, hanno registrato una variazione positiva.

Qual è l’insegnamento più significativo che possiamo raccogliere dalla  crisi economica che abbiamo vissuto?

Soprattutto la centralità del manifatturiero e delle imprese che non fanno finanza per generare una crescita elevata e sostenibile. Il manifatturiero è il motore dello sviluppo, economico e tecnologico; senza manifatturiero perdiamo la capacità di innovare e di diffondere l’innovazione, oltre che la capacità di esportare e quindi di fare fronte alla  bolletta energetica e a tutto ciò che viene dall’estero per implementare la nostra economia. L’impresa è il veicolo della modernizzazione, il soggetto proteso verso il futuro, anche nelle relazioni sociali.

Che ruolo hanno le banche nel sostegno alle imprese?

Il ruolo delle banche nel finanziamento delle imprese italiane è storicamente centrale. La forte contrazione registrata dal credito alle imprese negli ultimi anni sta però mutando questa situazione: la caduta complessiva dei prestiti tra 2011 e 2014 è infatti arrivata al -11,3%, pari a – 104 miliardi di euro. Un dato troppo rilevante per non essere considerato di natura strutturale. In proposito, va comunque osservato che l’eccessiva dipendenza delle imprese dal credito bancario rappresenta un fattore di debolezza, come mostrano chiaramente le tensioni finanziarie sofferte dalle imprese a seguito della stretta creditizia. Per questo – ferma restando la necessità di agire per rivitalizzare il mercato creditizio che resta una fonte essenziale per le imprese – Confindustria lavora da tempo allo sviluppo dei mercati dei capitali e di canali finanziari a complemento di quello bancario.

Confindustria ha messo a punto un’Agenda per il credito. Possiamo parlare di una nuova stagione di disponibilità della banche verso il finanziamento delle imprese, grazie anche alle mosse della Bce?

Il recente intervento della BCE potrà risultare determinante per rivitalizzare il mercato creditizio e favorire l’accesso al credito delle imprese. È importante che funzionino i meccanismi di incentivo previsti nell’ambito della nuova operazione di rifinanziamento a lungo termine mirata, così da assicurare che le risorse erogate alle banche si trasformino effettivamente in prestiti alle imprese.
Perché il credito torni a fluire, sarà però essenziale anche un’evoluzione delle relazioni tra banche e imprese. In particolare, come abbiamo evidenziato nell’Agenda per il credito, è essenziale che banche e imprese lavorino insieme per valorizzare il ruolo delle variabili qualitative ai fini della valutazione del merito di credito delle imprese.

Al tempo stesso – anche considerando il crescente livello di rischio di credito osservato dalle banche di recente, che è uno dei fattori principali che frenano la ripresa del credito – occorre potenziare, come proposto da Confindustria sempre nell’ambito dell’Agenda, gli strumenti di garanzia. In particolare, vanno rafforzati i Confidi e occorre potenziare ulteriormente il Fondo di Garanzia per le PMI.

Come nasce un’idea imprenditoriale vincente?

Nasce dall’ispirazione, dall’intelligenza e dalla fatica. Richiede impegno, passione, determinazione per essere realizzata. Si tratta della nota “lampadina” che si accende e che poi necessita di un lavoro di studio, di analisi, di ricerca, in ogni ambito della vita aziendale, per essere trasformata in un’attività d’impresa.

Quanto è strategico coltivare i talenti nelle aziende? Sono un driver importante per un cambio di passo del nostro Paese?

Coltivare i talenti, accompagnarli nella loro crescita e svilupparne il potenziale, è la chiave del successo di un’azienda che vuole competere nell’era dell’economia della conoscenza. L’Italia non è un Paese che ha particolari risorse naturali e materie prime, ma abbiamo una ricchezza che il mondo ci riconosce: il capitale umano. La creatività, l’autonomia, la capacità di unire mani e ingegno, la voglia di innovare, il senso della visione che permette di gestire il cambiamento senza subirlo, sono queste solo alcune delle caratteristiche che ho riscontrato nei giovani italiani che lavorano nella mia azienda e di tanti altri che ho incontrato nel corso di questi anni di presidenza di Confindustria. Scommettere sui giovani e sulla loro formazione, che è fatta sia di studio che di lavoro, significa fare l’investimento più importante per un’impresa e per un Paese.

Dobbiamo ritrovare fiducia nelle nuove generazioni e aiutarle a mettersi in gioco. È un po’ come nel calcio: per valorizzare il talento di un giovane bisogna farlo scendere in campo. Non ci si può soltanto allenare e aspettare di maturare senza giocare: lo dico pensando al fatto che i nostri giovani entrano tardi nel mercato del lavoro e spesso senza aver fatto percorsi di alternanza. Lo studio e il lavoro, invece, vanno integrati già nei primi anni di scuola ed è quello che noi imprese contribuiamo a fare. Perché lo studio, e l’allenamento, formano il talento. Ma il lavoro in azienda, l’esperienza on the job, forma il carattere. Talento e carattere sono gli ingredienti per il cambio di passo del nostro Paese: i giovani, se ben formati, possono renderlo possibile.

Quali sono i settori leader in Italia per innovazione e gestione dei talenti?

In questi anni le imprese che sono riuscite a contenere maggiormente l’urto della crisi sono quelle che hanno investito in innovazione e in capitale umano avanzato. Come dimostrano autorevoli studi internazionali, la domanda delle imprese si sta sempre più orientando verso competenze di alto livello. In Europa aumenta di 16 milioni la domanda di personale high-skilled, mentre diminuisce di 12 milioni la domanda di low-skills. Anche per l’Italia le proiezioni mostrano che entro il 2025 la quota di lavoratori altamente qualificati si attesterà al 31 %. Ma a livello micro questo dato è già oggi evidente per un imprenditore che vive tutti i giorni in azienda.

Tra i settori industriali che puntano di più su un capitale umano avanzato, ad esempio assumendo ricercatori industriali, ci sono il settore chimico, il bio-medicale, il metalmeccanico, il settore dell’automazione, quello elettronico: in sintesi tutto il manifatturiero avanzato. Oggi i talenti in impresa vengono fatti crescere grazie a programmi di formazione personalizzati, coordinati da tutor esperti, che puntano a valorizzare le qualità professionali e personali del giovane. Penso ai percorsi di apprendistato di alta formazione, ai dottorati industriali, ma anche agli ITS: tutti strumenti formativi che permettono all’impresa di contribuire in maniera significativa alla formazione delle nuove generazioni. È quello di cui i giovani hanno bisogno. Perché un giovane talento non è soltanto una persona molto competente nel suo settore specifico; questa è semplicemente la base che permette di essere selezionato. Un giovane talento è anche una persona in grado di vivere attivamente i problemi aziendali, di apportare innovazioni, di avere una visione integrale sul futuro. Ed è questa la figura su cui le imprese puntano di più per crescere.

Quanto la meritocrazia incide nelle performance di un’azienda?

Meritocrazia per un’impresa è sinonimo di efficienza, di crescita, di sviluppo. Un’impresa esiste perché vuole puntare sulle sue risorse migliori per moltiplicare il valore che riesce a produrre. Se non si scelgono e non si premiano le risorse più meritevoli e capaci, è difficile riuscire a creare valore nel tempo. Tuttavia per moltiplicare il valore in impresa la meritocrazia è una condizione necessaria ma non sufficiente: serve che la meritocrazia sia legata alla relazione, al lavoro in squadra, alla condivisione degli obiettivi e all’orientamento al risultato. Anche la persona più capace, efficiente e innovativa, può creare disvalore in impresa se non la riconosce come una comunità di persone che va verso traguardi condivisi.

L’azienda funziona non grazie alla somma di tanti meriti delle persone che ci lavorano, ma grazie alla moltiplicazione del merito di ciascuno con una missione e una visione che tutti condividono. Per questo la meritocrazia incide nella performance di un’azienda se diventa un fattore comunitario e non personale: una chiave di lettura delle attività d’impresa che ne costituisce l’identità e la cultura e che, nel tempo, diventerà una chiave di successo.

Quali fattori possono risultare determinanti  per incrementare il grado di competitività delle aziende italiane sui mercati internazionali?

La competitività internazionale delle aziende italiane dipende innanzitutto dall’efficienza e dalla qualità dell’intero sistema Paese. Ma il sistema Italia non è amico del fare impresa. Nella classifica Doing Business 2014 l’Italia occupa il 65° posto contro il 10° del Regno Unito, il 21° della Germania, il 38° della Francia e il 52° della Spagna.

Sul nostro Paese pesano l’alta pressione fiscale e le costose procedure burocratiche, così come i tempi lunghi e incerti della giustizia civile che minano la tutela del credito, il rispetto dei contratti e l’efficiente risoluzione delle dispute commerciali. Sono questi i nodi strutturali da sciogliere per rilanciare l’internazionalizzazione del sistema produttivo.
Anche il fattore costo del lavoro che pesa fortemente sulla competitività del manifatturiero italiano. In termini di CLUP il divario accumulato nei confronti della Germania è superiore ai 40 punti percentuali dal 1997 al 2013, perché ha continuato ad ampliarsi durante la crisi. È un macigno non sostenibile, che si traduce anche in un assottigliamento dei margini operativi.
Occorre, allora, ancorare la dinamica del costo del lavoro agli effettivi guadagni di produttività. E tagliare in modo deciso il cuneo fiscale.

È bene ricordare, allo stesso tempo, che la performance delle esportazioni italiane in questi anni è stata positiva, con delle punte di eccellenza anche in alcuni settori medium e high-tech. Le aziende italiane hanno dimostrato una grande capacità di competere all’estero: orientando le vendite verso i mercati più dinamici, puntando sulla qualità del prodotto e inserendosi con successo all’interno delle catene globali del valore.
Il potenziale di competitività internazionale del manifatturiero italiano, fondato su un grande capitale umano e sociale, è dunque molto elevato. Proprio per questo è enorme il premio in palio se verranno attuate le riforme necessarie.

Cosa può fare la politica?

Attuare le riforme. A cominciare da quelle istituzionali da cui poi discendono tutte le altre, perché aumentano la capacità decisionale di chi governa. Tra le riforme determinanti a mio avviso ci sono la semplificazione della pubblica amministrazione e la riforma del Titolo V della Costituzione. Ovviamente l’elenco non si esaurisce qui. Confindustria ha più volte ribadito quali sono le priorità per il Paese, da ultimo nel Progetto per l’Italia che è stato aggiornato la scorsa primavera.

Ma accanto alle riforme, che inevitabilmente richiedono tempo per produrre risultarti, occorre con urgenza far ripartire il Paese, per lenire le sofferenze economiche e sociali e affrontare la grande piaga della disoccupazione. Per questo serve una terapia shock, una scossa politico-economica molto forte per riportare l’Italia su un più alto sentiero di sviluppo. E il rilancio deve passare attraverso due leve: più investimenti, pubblici e privati, e più competitività, abbattendo il cuneo fiscale e contributivo. Qualcosa si è cominciato a fare, ma mi pare si tratti di timidi passi, non qualcosa in grado di cambiare le aspettative e quindi ribaltare il gioco. Fondamentale, infine, è sbloccare la stretta del credito, che è continuata anche negli ultimi mesi. Sfruttare appieno gli importanti fondi della programmazione europea è uno strumento importante che va utilizzato al meglio.

 

Fonte: icbpi.it