E’ una triste, sconvolgente e fastidiosa evidenza. La maggior parte degli imprenditori tessili del settore moda oltre ad avere questa brutta abitudine, sono avvezzi a sputare nel piatto in cui mangiano, a mordere la mano di chi li accarezza e ad inquinare l’aria che respirano….in senso metaforico, ma nemmeno troppo.
Il sistema moda nazionale è un delicato ambiente che per decenni ha trainato una branca dell’economia nazionale del tutto rilevante e di certo distribuita omogeneamente sul territorio. Come tutti gli ecosistemi, ha funzionato bene finchè tutti gli anelli della catena sono rimasti saldamente legati tra loro e singolarmente solidi.
Nel momento in cui alcuni anelli della catena hanno iniziato a cedere, si è innescato un processo di degenerazione dell’intero settore che arriverà probabilmente ad avere esiti irreparabili. A scanso di equivoci, tuttavia, è meglio premettere subito che questo fenomeno ha origini molto antecedenti la crisi strutturale del 2008 e che in buona parte non vi sono agenti esterni determinanti , quanto una serie di azioni scellerate e autolesioniste tali da fare sembrare l’inquinamento delle coste una sana abitudine ecologista.
Non è colpa dei cinesi e della loro normale propensione a fare i propri interessi, se il nostro mercato registra una contrazione. La Cina è stata formata principalmente da noi Italiani per quanto concerne il settore tessile e molti dei macchinari dismessi dalle nostre imprese e venduti a prezzi molto più alti del loro valore di rottami ad altrettante aziende cinesi sono proprio quelli che oggi producono capi che arrivano sul nostro mercato.Non è colpa loro se le nostre imprese, che dagli anni ’50 ad oggi hanno visto centuplicare il costo del lavoro dei propri dipendenti, non possono più giocare il ruolo di produttori a basso costo che veniva giocato quando ogni città aveva ancora qualche cumulo di macerie da bombardamento da ripulire….La Cina chiede di potere importare prodotti di alto livello e lo fa abbondantemente da mercati diversi dal nostro. Probabilmente se gli imprenditori italiani avessero guardato qualche centimetro oltre il loro naso, avrebbero capito che quei cinesi che producevano a bassissimo costo un giorno avrebbero imparato il mestiere, esattamente come il garzone di bottega, prima o poi, soffia i clienti al proprio titolare.
Non è colpa degli altri mercati, se quello che internazionalmente viene chiesto dalle nostre produzioni è stile, creatività ed alto livello. Ci si è dimenticati che l’Italia non ha mai brillato per precisione e qualità standardizzata, mentre di noi è apprezzata da sempre quell’artigianalità e quel lusso “accessibile” che tanto piace ai quattro angoli del pianeta. Se le piccole imprese italiane leggessero i dati, correrebbero a produrre capi di buona fascia e buona immagine da riversare sui mercati emergenti.
Non è colpa esclusiva dei negozianti se oggi, dopo decenni in cui le aziende hanno subissato i loro clienti professionali di prodotto, di imposizioni e di nuove uscite, i negozi iniziano a non assorbire più i quantitativi imposti. Era prevedibile che un sistema dove i singoli stadi della filiera si comportano da “antagonisti” e non da collaboratori prima o poi avrebbe segnato il passo. E non è nemmeno colpa di questa situazione se molti gruppi stranieri dallo stile e dalla qualità peggiori di quelli italiani hanno saputo aprire punti vendita, colonizzare le città italiane ed europee, togliendo altrettanti punti vendita alle aziende italiane.
Non è colpa di Steve Jobs se la tecnologia e la globalizzazione ci portano nuovi canali di comunicazione, distribuzione, trasmissione dati. Quelle sono facilitazioni ed è solo colpa dell’imprenditore che, orgoglioso della propria ignoranza, sostiene pubblicamente di non sapere utilizzare una email, se la sua concorrenza arriva prima e meglio di lui. Ugualmente è solo colpa sua se nell’affannosa ricerca di professionalità rassicuranti si affida unicamente a professionisti desueti che lo costringono a spendere molto più del dovuto per tecnologie spesso ormai già superate.
Non è colpa del pianeta terra se i continenti sono cinque e la distanza tra loro non si può sempre percorrere in automobile. Esistono mille modi di coprire il mercato mondiale, che non siano le solite, e ormai ricalcate all’infinito, missioni fieristiche che anno dopo anno non producono nessun esito commerciale. Considerando che i cani non si sono mai legati con la salsiccia sarebbe stato meglio investire tutti insieme per crearsi delle basi estere stabili e permanenti.
E’ assolutamente inutile identificare responsabilità esterne se l’ambiente in cui si opera ormai è diventato invivibile. Anche in presenza di tutti questi fattori l’imprenditore avrebbe dovuto saper fronteggiare i cambiamenti e le nuove difficoltà, cambiando rotta, specialmente in un settore dove la domanda è ancora molto elevata e viene soddisfatta da nostri concorrenti che non hanno di certo caratteristiche più vantaggiose delle nostre.
Se per decenni si è teso a spremere il lavoro nella moda come un limone e a raggiungere solo il massimo profitto, diseducando il cliente finale alla qualità sartoriale (perché la necessità era di convincerlo che anche gli stracci erano ben confezionati), allo stile (perché i creativi erano costi inutili e difficilmente pilotabili) ed all’eleganza, oggi non ci si può lamentare che il primo arrivato dall’ultimo paese della terra ci possa infastidire e, addirittura, mandare gambe all’aria. Quello della moda è il settore industriale (?? ) più facile a cui accedere ed è abbastanza ovvio capire che molti imprenditori vi siano entrati senza una preparazione ed una specializzazione adeguata (dopotutto le varie scuole di moda sparse per il territorio hanno dimostrato come sia spesso inutile insegnare il tessile), ma dopo anni, o decenni che si opera in un settore è decisamente colposo perseverare in convinzioni e atteggiamenti controproducenti e del tutto infondati.
Se dopo una crisi che ha azzerato molte differenze e che permette agli imprenditori di guardarsi negli occhi, tutti più o meno disperati, la tendenza è ancora a continuare queste usanze autolesioniste, allora, fare pipì nella piscina in cui si nuota sembrerà un atteggiamento più che normale.
Articolo ripreso dal blog di paologalli.biz