La innovazione tecnologica non e’ un pranzo di gala

La innovazione tecnologica non è un pranzo di gala. È rischio esistenziale quando si crea una nuova impresa, una startup: il successo o la morte (almeno che non si preferisca vivacchiare…). È rischio imprenditoriale (e manageriale) quando si avvia un percorso di cambiamento radicale all’interno di un’azienda consolidata: l’affermazione o la sanzione. Hai voglia a dire che bisogna accettare il fallimento e imparare dagli errori: non piace a nessuno sbagliare, perdere soldi, investire senza risultati. E quando succede, diventa troppo forte la tentazione del “business as usual”.  

Sarà anche per questo che sono ancora poche, troppo poche le imprese italiane che stanno facendo concretamente innovazione decisa, hard, rimettendo in discussione processi e modelli. In una parola, open innovation. Solo il 30% ha avviato collaborazioni con qualche startup, ci informa il report dell’Osservatorio Digital Trasformation Academy del Politecnico di Milano. Comprensibile, perché non è facile selezionare la startup giusta, costruire una relazione soddisfacente, ottenere risultati significativi. È fin troppo facile restare delusi e quindi va tutta la nostra ammirazione a chi ha il coraggio di ammetterlo senza pentirsi. Come Stefano Bertolotti, amministratore delegato di IVAR, azienda bresciana che produce componenti idrosanitari. «Nel tentativo di rendere “intelligenti” i nostri prodotti ci siamo interfacciati con una startup, con risultati poco in linea con le aspettative», racconta diplomaticamente «Ma dopo quell’esperienza abbiamo incontrato altre  tre startup molto interessanti in ambito Internet of Things. Siamo decisamente recidivi e stiamo facendo nostra la cultura del fallimento».

Pensare che innovare sia facile è una sciocchezza, ma non provare a farlo è una sciocchezza ancor più grande. Ce lo dicono i fatti. Il CEO di Electrolux Jonas Samuelson racconta che la multinazionale degli elettrodomestici sta pensando di lanciare una LaundryUber, una lavabiancheria in condivisione che si paga a consumo. Ma anche un forno dove non serve più impostare tempo e temperatura: farà tutto da solo in base a quel che vogliamo cuocere. Se una multinazionale che fa macchine (gli elettrodomestici che tutti conosciamo) si pone una prospettiva del genere, qualche cosa vorrà dire. Qualche domanda bisognerebbe cominciare a farsela. Restiamo in Europa e guardiamo in casa Mercedes. Indipendentemente dall’andamento del mercato tradizionale (si vendono più auto, a volte) e dagli scandali al diesel, che cosa sta facendo la casa di Stoccarda? Da una parte lancia con successo in tutto il mondo Car2Go e dall’altra ci prova, con un po’ più di fatica, con MyTaxi, app che ti permette di chiamare (e pagare) i taxi autorizzati come se fosse un’auto Uber. Car sharing e auto pubbliche. Da un’azienda che vende auto. Impensabile fino a poco tempo fa. Ma, siccome i tedeschi non scherzano mai (come ci ricorda un commercial auto in tv), evidentemente Mercedes sta esplorando un nuovo modello di business (per il momento parallelo), che vede al centro non più ferraglia ben disegnata e motorizzata, ma un servizio, la mobilità (per il momento urbana, anche se la partnership con Europcar nella gestione di Car2Go non esclude futuri sviluppi).

Questa è solo una sintesi superficiale ma efficace di quel che possono essere gli effetti della digital disruption: ripensare prodotti, servizi e modelli di business ma anche cambiare la relazione con i clienti.  E non è questione che riguarda solo le aziende del secolo scorso (Electrolux 1910, Mercedes 1926).

L’innovazione non è qualcosa che si acquisisce una volta per sempre, è un work in progress che richiede attenzione e manutenzione continua. Ed anche le aziende più giovani, persino quelle digitali e geneticamente avanzate, non possono permettersi di stare ferme. Non a casa Facebook ha aperto uno “startup garage” all’interno di StationF, il più grande campus per startup del mondo che si trova a Parigi. E non è certo una stravagante scelta per farsi qualche piacevole gita nella Villa Lumiere. È un tassello di quella strategia permanente di innovazione che permette a Facebook di continuare a essere Facebook. Una pratica comune a tutte le nuove multinazionali digitali, che dovrebbe essere presa ad esempio da quelle tradizionali a volte scettiche, spesso caute. Qual è la società americana che dal 2012 ha comprato più startup delle prime 15 aziende europee? Google. Sì, il colosso di Mountain View continua a immettere nel suo enorme e potente corpo nuove idee, energie, competenze. E se ne ha bisogno Google, possono farne a meno le aziende italiane?