L’Italia e il Venture Capital dal primo gennaio 2015 non vanno d’accordo

C’è una Direttiva europea che si chiama 2011/61/UE e che prevede le norme sui gestori di fondi alternativi (alternative investment fund manager) o AIFM.

Più nel dettaglio la Direttiva 2011/61/UE o AIFMD disciplina a livello europeo la commercializzazione e la gestione di fondi alternativi attraverso il rilascio di un passaporto. Il Decreto legislativo di attuazione nazionale è il n. 44 del 4 marzo 2014.

La Direttiva è collegata anche all’introduzione del regolamento (UE) n. 345/2013 relativo ai fondi europei per il venture capital (EuVECA) e del regolamento (UE) n. 346/2013 relativo ai fondi europei per l’imprenditoria sociale (EuSEF), che prevedono il passaporto per prodotti specifici.

La AIFMD sarà recepita anche in Italia ed entrerà in vigore per gli intermediari dal 1° gennaio 2015. Il ministero dell’Economia e delle finanze e le autorità di vigilanza (Banca d’Italia e Consob) hanno condotto una consultazione al fine di operare al meglio per definire la normativa italiana che recepisce la suddetta Direttiva ma come spesso accade questo tipo di attuazioni presentano alcune voci di preoccupazione. Nel caso specifico il rischio è un forte impatto sui modelli regolamentari, e sulle strutture organizzative nonché sugli adempimenti e sui costi di gestione delle strutture che in Italia si occupano di fare investimenti in capitale di rischio.

Per le SGR non ci dovrebbero essere cambiamenti straordinari, ma per i veicoli che attualmente svolgono l’attività di acquisizione di partecipazioni in forma societaria (le cosiddette investment company) si imporrà la necessità di trasformarsi in Sicaf (Società di investimento a capitale fisso) o prendere altre decisioni sulla struttura giuridica comunque compatibili con la norma attuativa della Direttiva.

Come detto gli obblighi di adeguamento sono stati prorogati al 31 dicembre 2014 e come detto la direttiva muove da un dibattito europeo, focalizzato soprattutto su hedge fund, che mirava a intervenire sulle cause della crisi finanziaria regolamentando il settore; ma per estensione sono rientrati nella Direttiva anche gli operatori di private equity e venture capital, che non hanno alcun ruolo sui rischi di carattere sistemico.

La ratio relativa alla regolamentazione delle società di investimento è sottesa alla stessa direttiva, che tratta allo stesso modo i veicoli fondi e i veicoli societari. Tuttavia, a livello nazionale si è deciso di applicare anche ai piccoli gestori (cosiddetti sotto-soglia cioè sotto i 500 milioni di euro gestiti) il quadro normativo completo, mentre la Direttiva li esentava da gran parte degli obblighi.

In Italia è lAifi, l’Associazione italiana del private equity e venture capital che ha lavorato al fine di portare il suo contributo e di mettere in luce la necessità, pur nel rispetto della Direttiva, di rendere il più semplice possibile l’adeguamento da parte dei piccoli gestori. In particolare Aifi ha svolto alcuni approfondimenti anche sulla disciplina delle Sicaf, entrata in vigore con il nuovo Testo Unico. In questo ambito molte delle osservazioni di AIFI volte a rendere il più possibile flessibile la disciplina delle Sicaf sono state recepite (si veda il documento allegato a questo articolo).

Si attende ora il quadro definitivo con la speranza che vi sia ulteriore spazio per le semplificazioni.

Il punto è quindi come la normativa che entrerà in vigore il prossimo anno impatterà l’operatività di tutti quei gestori di piccole dimensioni che si troveranno a dover adempiere a obblighi e a strutturarsi maggiormente con quindi maggiori complessità di gestione e con una crescita esponenziale dei costi.

Le SGR come detto sono già allineate benché quelle sopra soglia sono poche anche quelle sotto soglia hanno già le carte in regola per la gran parte degli adempimenti. Le investment company invece, che sono tutte sotto soglia si trovano a dover adempiere alla nuova normativa di vigilanza che in passato era gestita nell’ambito del testo unico bancario (art. 106-107) poi si era decisa una deregolamentazione, ora rientrano di nuovo nella vigilanza.

Ciò impatta quindi in particolare i veicoli di venture capital che non sono strutturati come SGR e che dovranno secondo la normativa diventare Sicaf. Da parte sua Aifi ha chiesto la definizione di un veicolo con pochi obblighi e molto snello, soprattutto per il venture capital ma ciò non è stato recepito. L’Autorità di vigilanza, anche se in via di principio condivide l’importanza del venture capital, finora non si è mostrata  molto sensibile al tema dei costi di vigilanza perché preferisce dare priorità alla solidità dell’intermediario quindi predilige un assetto di controlli solido, esige un’informativa di dettaglio e non accetta il principio di una vigilanza “soft” nemmeno per i sotto-soglia come consentiva la Direttiva europea perché l’ipotesi della sola registrazione dell’intermediario non era accettabile perché si tratta di una vigilanza troppo parziale.

Si configura quindi uno scenario piuttosto delicato che vede i veicoli di investimento più leggeri e piccoli, quelli che oggi in Italia operano per la maggior parte a sostegno finanziario delle start-up, obbligati a strutturarsi e quindi a dover considerare maggiori costi di gestione. E’ ancora prematuro rilevare gli effetti di tale cambiamento normativo ma è facile intuire come sia forte il rischio di riduzione delle società di investimento e quindi di riduzione dei capitali – che peraltro sono ancora pochi per un sistema economico come quello italiano – a disposizione degli investimenti in venture capital nelle start-up e nelle aziende innovative. Si tratta di un rischio che potrebbe essere potenzialmente capace di spingere alcuni veicoli di investimento a migrare all’estero, magari in altri Paesi europei dove la Direttiva è stata recepita senza però estenderla ai piccoli gestori sotto-soglia.

A questo nuovo regolamento si aggiunge un altro elemento che dal 1 luglio 2014 ha reso ulteriormente difficile il lavoro degli investitori: l’aumento della tassazione su capital gain che ha raggiunto quota 26% (era il 20% a seguito dell’aumento già attuato dal governo Monti che l’aveva innalzata dall’originario 12,5%, percentuale questa che rimane però valida per i soli titoli di Stato, il governo Renzi l’ha ulteriormente aumentata portandola al 26% per reperire i fondi a copertura del bonus da 80 euro).

Considerato tutto ciò appare chiaro come gli investitori si trovano oggi a lavorare in un terreno decisamente ‘poco fertile’ e destinato a diventare sempre più ostile. Gli aumenti dei costi di gestione e della tassazione annullano di fatto anche i pochissimi e limitati vantaggi del decreto sulle startup (di cui ho scritto su Corriere Innovazione e che peraltro sta provocando una serie di ulteriori danni collaterali) che garantiva per i soli investitori che operano con le ‘startup innovative’ (limitatamente a quelle decretate tali per legge) una detrazione del 19% per un periodo limitato.

Questo desiderio dell’eccesso di vigilanza, di burocratizzazione, di controllo e questa corsa a tassare con sempre maggiore pressione chi lavora per sostenere l’economia, compresa quella innovativa e nascente, è figlio sia del fatto che questo governo sta mostrando di essere tutto fuorché amico delle imprese e della innovazione, sia di una profonda e atavica mancanza di cultura dell’investimento in equity che vede il nostro Paese lontano anni luce da quelli più evoluti. Qui da noi si punta su i prestiti, agevolati, garantiti (che poi è tutto da verificare perché le esperienze dirette delle startup sono spesso incredibilmente farraginose con tempi di erogazione infiniti e soprattutto con richieste di fideiussioni nonostante le fantomatiche garanzie, a breve pubblicheremo la kafkiana esperienza di una startup che ha provato a partecipare a Smart&Start, programma che il governo vorrebbe rilanciare con un ulteriore stanziamento di 220 milioni di euro e si spera con radicali modifiche delle modalità operative).

Ciò che bisognerebbe fare è puntare invece in modo deciso sull’equity, fare in modo che i capitali privati e il risparmio gestito degli italiani fosse dirottato sulle startup italiane e non finisse nei grandi fondi internazionali facendoci scoprire che in verità i patrimoni italiani già oggi investono in startup ma lo fanno passando per Londra.

Bisognava proseguire sulla strada che fu aperta con il fondo HT per il Mezzogiorno che aveva mostrato di funzionare piuttosto bene e che aveva dato una nuova dimensione al rapporto tra l’investimento pubblico e quello privato. Quella era una buona strada che se fosse stata ulteriormente percorsa e accresciuta, sia in termini di investimenti sia in termini di svincolo territoriale, avrebbe forse contribuito a portare un pochino più di attenzione verso la cultura dell’equity e meno su quella dei prestiti perché le startup si fanno con l’equity e non con i prestiti.