L’Italia non vuole e non puo’ diventare come la Grecia

Che strano il nostro paese. Non più di un anno fa Mario Monti volava nei sondaggi, era la figura in cui gli italiani riponevano più fiducia, i partiti ne subivano il protagonismo, e forse anche il fascino.

La parola d’ordine era: austerità! Chiamato al capezzale di un’Italia moribonda (Cosi ci è stato detto), il professore spiegava ad un paese attonito, smarrito, che bisognava fare un po’ di sacrifici per risalire la china, mettersi al riparo dalla speculazione, evitare di finire nelle mani della Troika come era capitato alla Grecia. Bisognava “salvare” l’Italia, insomma, e lui era lì, a mettere nell’impresa tutta la sua esperienza, di accademico, di burocrate europeo e di consulente finanziario di grandi banche.

Poi sono arrivate le elezioni, e il professore ha un po’ indorato la prospettiva, promettendo tagli alle tasse ed inedite misure di sostegno all’economia, smentendo la perentorietà di certe misure che aveva appena varato. Berlusconi ha addirittura preso le distanze dalle scelte che insieme a Monti il suo partito aveva fatto per l’intera durata dell’esecutivo tecnico, mentre Bersani, dal canto suo, ha tirato un colpo al cerchio ed uno alla botte, rimanendo però sostanzialmente ingabbiato nei panni dello statista responsabile, filoeuropeo, più o meno rigorista. Passate le elezioni, il film che avevamo visto (Pardon, che ci avevano fatto vedere) per più di un anno e mezzo è diventato, d’incanto, un pastone in bianco e nero, sbiadito, come certi film neorealisti degli anni cinquanta.

Gli attori protagonisti hanno indossato altri abiti, hanno iniziato a recitare nuovi copioni, sono passati, senza colpo ferire, da un genere all’altro, dal dramma alla farsa, nell’arco di poche settimane. Anche il più responsabile di tutti, Pier Luigi Bersani, ha cancellato dal suo vocabolario la parola rigore, mettendo al primo posto, tra gli otto punti con cui intende presentarsi alle camere, il tema della lotta all’austerità. Come a dire: cari italiani, fin qui abbiamo scherzato.

Chi non scherza affatto sono invece i cittadini italiani, che hanno dovuto sopportare il peso di una politica di tagli alla spesa sociale e di inasprimento della pressione fiscale, che, come è noto, ha generato una spirale recessiva molto pericolosa. Ce lo dice, impietosamente, la Banca d’Italia, che prevede per l’anno in corso ancora un saldo negativo per il Pil, un aumento della disoccupazione fino al 14%, con punte per quella giovanile del 40%, un ulteriore calo dei consumi che si andrà ad aggiungere a quel -4,3% registrato nei primi tre trimestri del 2012.

Dopo la cura (dimagrante) del professor Monti, che, è bene dirlo, è stata per certi versi in continuità con la politica di tagli già sperimentata da Tremonti, secondo Rete Impresa Italia, il paese ha fatto un balzo all’indietro di 27 anni, con 100 mila imprese chiuse nel solo 2012 e la perdita, nello stesso anno, di ulteriori 130 mila posti di lavoro, che si sono aggiunti ai 500 mila già persi nei quattro anni precedenti, dall’inizio della “crisi”.

I numeri del disagio sociale sono anch’essi da capogiro. Come ci segnalano i più importanti istituti di ricerca sociale e le stesse Ong che operano nelle nostre città. La Cgia di Mestre ha recentemente rivelato che i casi di deprivazione materiale grave nel nostro paese sono aumentati di oltre un milione e 200 mila soltanto nel periodo 2008-2011 e la cifra è destinata ad aumentare sensibilmente per gli effetti dei tagli alla spesa pubblica e dell’aumento delle tasse, Imu in primis, compiuti dal governo tecnico.

Nel nuovo scenario post-elettorale, tuttavia, insieme all’austerità, anche lo spread è passato di moda. Si fa le sue oscillazioni giornaliere, peraltro abbastanza contenute e fisiologiche, senza che nessuno ne faccia più l’argomento principe delle proprie sortite politico-mediatiche. Perfino l’ipotesi, ancorché remotissima, di un Grillo al governo, non riesce a far schizzare il temibile differenziale di rendimento tra i nostri titoli e quelli tedeschi.

Evidentemente le logiche della speculazione sono molto più sofisticate, ed anche più subdole, di quello che ci volevano far credere i professori al governo. Non solo: è sempre più evidente che la speculazione non si combatte spremendo i cittadini come limoni, perché così facendo si ottiene l’effetto contrario. Sembra che questo l’abbiano finalmente capito anche dalle parti del Pd, mentre il silenzio di Monti potremmo leggerlo perfino come il segno di un suo ravvedimento? forse.

E dire che c’erano stati fior di economisti a mettere in guardia dal rischio di avvitamento della recessione. Il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz, ad esempio, aveva più volte avvertito i governanti europei di questo rischio, asserendo che l’austerità, di per sé, sarebbe stata un disastro e avrebbe peggiorato la crisi dell’Euro. Per non parlare di Paul Krugman, un po’ più scontato, di Robert Solow e dei 300 economisti che, nel novembre del 2011, avevano firmato un manifesto contro l’austerità, col quale si chiedeva a Monti di intervenire in sede europea per una modifica delle politiche restrittive in tema di bilanci pubblici.

Le cose sono andate diversamente. E oggi si fanno i conti con un’economia sfiancata, un popolo frustrato, con un disagio sociale che non sappiamo fino a quando potrà essere ancora vissuto soltanto con composta mestizia. Gli autori di questo disastro meriterebbero un processo pubblico, ma sono ancora lì, a raccontare però una storia molto diversa da quella raccontataci per più di un anno e mezzo. Quando il nuovo parlamento si insedierà sarà difficile trovare un deputato disposto ad invocare nuovo rigore per il paese, almeno a parole. Anche tra quelli che, nel precedente parlamento, le misure di austerità di Monti le hanno votate tutte.

Prendiamo il lato positivo di questa storia, allora. E auguriamoci che il nuovo governo riparta col piede giusto. In un suo recente editoriale uscito sul quotidiano l’Unità, Riccardo Realfonzo ha sottolineato come sia necessario riflettere “sulle regole e sugli obiettivi” di finanza pubblica in Europa, aprendo, se necessario, anche un’inchiesta sugli effetti avuti in questi anni dalle politiche di austerità sulle economie nazionali. Il suo ragionamento, che a questo punto mi sembra il più lucido, ed anche il più concreto, tra quelli ascoltati in questo frangente, che si rifà al famoso appello degli economisti del 2006, si basa sulla constatazione che non è più possibile chiedere sacrifici agli stati membri e che alcuni obiettivi di stabilità potrebbero essere raggiunti attraverso una stabilizzazione del rapporto tra il debito pubblico e il Pil sui valori correnti.

Che significa? Che il nuovo governo dovrebbe operare per tenere sotto controllo il debito pubblico, non in termini di stock assoluto, ma in rapporto alla ricchezza nazionale, al fine di mantenerlo nel suo attuale 127 per cento del Pil. Si tratterebbe di un impegno che il governo andrebbe ad assumere in cambio di una rivisitazione degli attuali patti sottoscritti con l’Unione, che ci obbligherebbero, viceversa, a varare nuove manovre lacrime e sangue per i prossimi decenni. Anche perché, come da più parti è stato sottolineato, i vincoli imposti dal Trattato dell’Unione, più noti come parametri di Maastricht, quelli che fissano il tetto del deficit al 3% e quello del debito al 60% del Pil per intenderci, non costituiscono delle soglie di sostenibilità inemendabili, per di più se si considera che la loro fissazione risale ad un epoca del tutto diversa da quella attuale, con uno scenario economico altrettanto diverso. Non esistono leggi naturali ed immutabili in economia, come qualcuno ci ha ammonito più di 150 anni fa. Figuriamoci se esistono parametri immutabili!

Ma poi, dove sono le altre alternative? Rispettare gli impegni sul pareggio di bilancio e sull’abbattimento del debito pubblico (Fiscal compact), oggi significherebbe condannare il paese ad una dannazione senza fine, come la Grecia tristemente ci insegna. Il tema di una nuova Europa è ormai ineluttabile.

Articolo ripreso da linkiesta.it, Autore: Luigi Pandolfi