«È vero – commenta Andrea Rangone, responsabile dell’Osservatorio Startup del Politecnico di Milano – il decreto semplifica la vita delle startup sia in fase di costituzione, sia di gestione e chiusura, riducendo gli onori amministrativi e intervenendo sulla normativa fallimentare. Altrettanto importante è l’effetto culturale: per la prima volta dai tempi dello scoppio della bolla della New Economy, c’è un fermento positivo».
È in parte grazie alla politica dunque, se oggi innovazione è un termine alla moda, ma il merito va soprattutto ai tanti imprenditori e addetti ai lavori che negli anni scorsi non si sono arresi alle difficoltà.«Noi siamo partiti nel 2005 – racconta Riccardo Donadon, fondatore dell’acceleratore d’impresa trevigiano H-Farm – forse troppo in anticipo rispetto al resto del mercato italiano. Oggi il momento è più favorevole, abbiamo una credibilità e un track record che ci consentono di lavorare con serenità».
H-Farm e altre realtà simili che aiutano, con consulenza e fondi, gli aspiranti startuppari nella fase di incubazione – come dPixel, Net Value, Annapurna Ventures, Digital Magics e altri – ricevono migliaia di proposte l’anno. Segno di un ecosistema estremamente vivace, che sforna idee da Nord a Sud e si ritrova online in gruppi Facebook affollatissimi come Italian Startup Scene e Indigeni Digitali. Una vitalità che ha attirato perfino l’attenzione degli americani di TechCrunch, che hanno scelto il Bel Paese per il lancio di TechCrunch Italy, format da esportazione di uno dei loro eventi di punta.
Il legame con gli Usa è molto sentito dagli startupper nostrani, per alcuni l’America è ancora la Mecca, «il Paese – spiega Paolo Privitera, fondatore di Pick1, impresa, con sede a San Francisco, che raccoglie opinioni attraverso i social media – dove con 100 dollari e un clic del mouse, puoi aprire un’azienda».
Oltre a Pick1, nata all’estero, altre startup come Mashape e Timbuktu, dopo una prima fase di lancio in Italia, hanno trovato negli States l’opportunità di sfondare. Il decreto Crescita migliora le cose e frenerà forse il drenaggio, ma ha anch’esso i suoi limiti. «Quello principale – chiarisce Rangone – è che manca un’iniezione diretta di capitale pubblico, ci sono solo delle agevolazioni». Sessanta milioni dovrebbero però arrivare a breve dal Fondo Italiano d’Investimento. E, come sottolinea Fabio Lalli, «startupper seriale» e fondatore di Indigeni Digitali, «il ricorso al crowdfunding potrebbe dare una spinta incredibile a progetti minori».
A tutt’oggi il problema maggiore del panorama italico non è però l’assenza di investimenti che, come dimostrano i casi citati in apertura, stanno arrivando: è la mancanza di exit, ossia la cessione di attività già avviate. Il mercato è piccolo e i pretendenti scarsi.
Intanto, però, piccoli imprenditori crescono: Blomming, startup milanese di social shopping, è stata nominata dalla società di analisi di mercato Gartner fra i primi quattro «Cool Vendors» del 2012 nel settore e-commerce e ha ottenuto un investimento da 1,3 milioni di euro. Cibando, società romana che aiuta i clienti a trovare il ristorante più adatto a loro, ha attirato capitali berlinesi; Sardex, circuito di compensazione crediti fra aziende sarde conta già 800 aderenti e punta all’1% del Pil isolano. Altre realtà di successo, diffuse capillarmente da Nord a Sud della penisola, sono Fubles, Steremood, Spreaker, Crowd Engineering.
E ogni giorno un nuovo nome si va aggiungendo alla lista. Startup è una parola oggi molto di moda, forse perfino troppo. Ma dietro la retorica ci sono persone che lavorano duro e con grande passione, senza vittimismo e senza raccomandazioni. Di questi tempi, è già più di tanto.
Articolo a cura di F. Guerrini ripreso da lastampa.it