Presto i cori di giubilo per l’accordo raggiunto alle quattro del mattino del 27 ottobre a Bruxelles lasceranno il posto agli interrogativi. A non convincere sono in particolare le modifiche al Fondo europeo di stabilità finanziaria (Efsf), basate sull’idea di assicurare una parte delle obbligazioni dei paesi sovraindebitati. Inoltre il nuovo budget dell’Efsf, mille miliardi, resta comunque al di sotto delle aspettative.
Anche l’idea di creare un secondo fondo, il cosiddetto “veicolo speciale” aperto ai capitali della Cina e degli altri paesi emergenti, è già oggetto di forti critiche. E non certo a sproposito: davvero vogliamo affidare il nostro destino alla Cina? Come faremo d’ora in poi a limitare il valore dello yuan o a denunciare le politiche interne di Pechino?
Tuttavia l’aspetto fondamentale del nuovo accordo è un altro. Manca la crescita. Il vertice non ha posto le basi per una politica macroeconomica comune e non ha fatto nulla per appianare le differenze tra gli stati membri.
Dal rigore al “commissariamento”
Il tema delle politiche economiche viene affrontato dall’accordo di Bruxelles soltanto in termini di controllo. I capi di stato e di governo hanno preso due decisioni significative: innanzitutto intendono rafforzare l’idea di una governance dell’eurozona, rischiando di ampliare la frattura con gli stati membri che non condividono la moneta unica e di creare un’altra struttura tanto complessa quanto inefficiente. In quest’ottica deve essere considerata la decisione di creare un “eurovertice”, presieduto dai capi di stato e di governo e non dai ministri delle finanze. Insomma, siamo già passati a un livello successivo. Inoltre, è stato istituito un segretariato permanente, dal nome ridondante di Eurogroup Working Group. Il problema è che al momento non è chiaro quale sarà il rapporto tra il nuovo organismo e la Commissione. Tra l’intergovernamentale e il federale, non si sa da che parte penderà la bilancia.
La seconda decisione scaturita dal vertice di Bruxelles riguarda l’ulteriore rafforzamento del controllo sui bilanci degli stati membri. Dall’inizio dell’anno è in funzione un meccanismo di coordinazione, il “semestre europeo” (nome meno ridondante ma senz’altro oscuro), che impone a ogni stato di inserire la propria manovra economica nel quadro di un progetto pluriennale discusso in precedenza con Bruxelles. In questo modo l’Europa valuta le manovre di bilancio di una nazione ancora prima che vengano votate.
L’accordo si spinge ancora oltre e impone l’introduzione entro il 2012 di una “regola d’oro” costituzionale sui bilanci, che d’ora in poi dovranno basarsi su stime di crescita “indipendenti”. Si tratta di un primo passo verso una Commissione di bilancio indipendente all’anglosassone. Ogni iniziativa che avrà un potenziale impatto sugli altri paesi dovrà essere comunicata alla Commissione. Per gli stati al di fuori di Maastricht e “sotto osservazione”, una simile disciplina rasenta il commissariamento: la Commissione sarà sostanzialmente incaricata di gestire (“monitorare”) le loro manovre economiche.
In ogni caso, il controllo è qualcosa di molto diverso dal coordinamento. La Germania esce vincitrice dal vertice e potrà imporre le sue regole agli altri stati. Di per sé non è una cattiva notizia. Il sogno della Francia di un governo economico europeo è invece rimasto tale: la politica economica d’insieme resta invariata. Come invariato rimarrà il rischio che l’imposizione delle misure di austerity possa falciare ogni speranza di crescita economica. D’altronde, non è stato fatto nulla per soddisfare la necessità dei paesi che soffrono di sovrapproduzione (come la Germania) di mantenere alta la domanda.
Un’Europa spaccata in due
L’accordo di Bruxelles non risolve nemmeno l’altro problema di fondo del progetto europeo: le disuguaglianze tra gli stati. È il grande inganno dell’euro. Anziché convergere sotto l’influenza della moneta unica, le economie nazionali hanno fatto l’esatto contrario: le differenze nella produttività, nei costi della manodopera e nel commercio estero sono aumentate.
In sostanza si è ampliata la frattura tra l’Europa del nord che produce troppo (Germania, Olanda, Danimarca, Repubblica Ceca e Ungheria) e quella che produce poco (Grecia, Italia, Portogallo, ma anche Francia). Il problema è gravissimo: i paesi dell’Europa meridionale producono e vendono sempre meno beni industriali e servizi, e vivono sempre più oltre le proprie possibilità. In che stato sarà l’occupazione in Grecia tra dieci anni? È questa la domanda essenziale posta dalla crisi dell’euro. E potrebbe essere estesa a tutti i paesi del sud Europa.
L’unione monetaria non basta e la Germania in questo caso ha torto. Oggi si mettono a disposizione sempre più soldi contro la crisi. In futuro ce ne vorranno altri, poi altri ancora, ma non saranno mai abbastanza. Bisogna fare qualcosa per la mobilità, per la competitività e per la qualificazione. L’accordo di Bruxelles chiede al presidente del Consiglio europeo Herman van Rompuy di presentare nuove proposte entro la fine dell’anno. Resta da vedere se l’Europa accetterà di adempiere a ciò che è necessario.
Articolo ripreso da presseurop.eu