La crisi del lavoro e’ la causa del deficit finanziario in Europa

Nostro commento: questo e’ un concetto che deve essere ben saldo nella mente di ogni osservatore, professionista o amatoriale. Il vero problema non e’ la finanza che ha creato troppa moneta, il grande problema e’ lo spostamento dell’asse economico del pianeta che negli ultimi 10 anni si e’ mosso, forse un po’ troppo in fretta, verso l’area del Pacifico e in particolare ovviamente verso la Cina. Da qui nascono le gravi condizioni in cui versa l’economia.

Nessuno può prevedere l’evoluzione della crisi, tanto meno quanti cianciano (ci si mette anche il premier olandese, sul Financial Times!) di un’uscita dall’euro come se si trattasse di uscire per un caffè! Quali sviluppi ci attendono sulla strada della grande crisi europea?

Le trattative della Grecia con le banche sul pacchetto di salvataggio vanno per le lunghe; la sentenza della Corte Costituzionale tedesca, se lascia spazi di manovra al governo tedesco, impone il coinvolgimento della Commissione del Bundestag, il che potrebbe causare ritardi fatali in casi assai più controversi di quanto non sia il salvataggio della piccola Grecia.

I nostri problemi tocca a noi sbrogliarli. Non possiamo sperare che siano i Paesi “forti” dell’Eurozona a tirarci fuori dalle peste. In questo senso, tanto parlare di Eurobond è prematuro, e da parte italiana anche un po’ sospetto, almeno se li si vede come mezzo per uscire dalla crisi del debito sovrano (altra cosa, certo, sarebbero dei Bond dell’Unione relativi a grandi progetti- infrastrutturali o di ricerca- interessanti per tutta l’Eurozona, sui quali nessuno obietta). Sarebbe puerile ed irresponsabile contare sulla buona stella, cioè sull’aiuto degli altri, magari sperando che essi faranno qualsiasi cosa per impedirci di sfasciare, con le nostre sole dimensioni, tutta la costruzione europea.

Fin qui, d’accordo. Però la Germania e gli altri Stati “forti” chiedono a gran voce, per tutta l’Eurozona, l’impegno costituzionale al pareggio di bilancio, e negano che si possa procedere verso una maggior integrazione finché tutti i paesi non l’avranno raggiunto effettivamente. E qui invece c’è molto da obiettare; dire- come Angela Merkel- che di Eurobond non si può parlare finché tutti i Paesi non avranno raggiunto il pareggio di bilancio, significa negarli in via di principio, non voler fare- appunto- alcun passo verso una maggiore integrazione.

In quale mai Stato, federale o meno, tutte le regioni- o gli Stati, o i Land- hanno i bilanci in pareggio? E che senso ha, nel bel mezzo della più grave crisi che i viventi ricordino, chiedere a tutti gli Stati dell’Eurozona di convergere verso tale meta, tutti assieme? Viene in mente la famosa frase sul destino degli uomini affidato ad economisti che giacciono da tempo sottoterra. I bilanci pubblici di Spagna e Irlanda, ad esempio, sono a pezzi per via della crisi. Non è il debito pubblico ad aver causato la crisi, ma la crisi, col calo delle entrate e l’avvio degli stabilizzatori automatici, ad aver fatto scoppiare il debito pubblico; questo vale quasi ovunque, tranne in Italia dove il problema non è il deficit annuo ma il debito accumulato.

Noi italiani, in teoria, l’obbligo al pareggio di bilancio lo avremmo già nell’articolo 81 della Costituzione; come abbiamo aggirato quello, aggireremmo anche il nuovo vincolo, a meno che esso non sia provvisti di “denti” veri. Durante una recessione, poi, è logico che il bilancio vada in deficit; sarebbe molto meglio, infine, andare in deficit perché si investe, che pareggiare il bilancio senza mai investire nulla. Ma le proteste dei debitori sono, o paiono, sempre strumentali.

Ci sono però Paesi, in primis la Germania, che lo spazio per politiche espansive lo hanno, e dovrebbero sfruttarlo responsabilmente, per cercare di alzare il prodotto dell’Eurozona a beneficio dei “deboli”, che così un po’ si rafforzerebbero. Come ha scritto Martin Wolf sul Financial Times del 7 settembre, “È impossibile che sia i governi, sia il settore privato dei Paesi in deficit riescano a rimborsare i debiti (anziché dichiarare default) senza giungere ad un attivo nel saldo con l’estero. Cosa sta facendo la Germania per permettere tale aggiustamento?” E ancora: “In un’unione monetaria un grande Paese che abbia un attivo strutturale nelle partite correnti in pratica è costretto a finanziare il disavanzo delle sue controparti. Se il settore privato di quel Paese si rifiuta di farlo, lo dovrà fare il suo settore pubblico, se no i suoi partner commerciali faranno default, e le loro economie collasseranno, e ne conseguiranno effetti negativi sulle esportazioni del Paese in surplus”.

Non c’è nulla da aggiungere. Se i Paesi “forti”, si rifiutano di aiutare l’economia dell’Eurozona a riprendersi, magari profittando dei bassissimi tassi d’interesse che oggi spuntano sul mercato, vuol dire che essi non hanno intenzione di fare, come dice Angela Merkel “Tutto quanto serve a salvare l’Euro”, ma solo quel tanto che eviti il suo collasso immediato. Qui viene in mente la famosa frase del cancelliere Schmidt- un grande, ma certo non un nostro amico- per il quale bisognava aiutare l’Italia a tenere la testa fuori dall’acqua, non di più, ma quello sì.

Se la via maestra fosse chiusa, si potrebbe pensare ad una via alternativa, quella dell’integrazione “di soppiatto”. Gli sviluppi della crisi rendono evidente l’intreccio fra la crisi del debito sovrano e le difficoltà delle banche (o delle compagnie di assicurazione, di cui nessuno parla, guardiamo i bilanci delle Generali, per fare un esempio a caso); queste sono in genere imbottite di titoli dello Stato che le ospita, e che certo non potrebbe ricapitalizzarle, per la contraddizion che nol consente, se esse andassero “sotto” coi parametri per via del deprezzamento dei titoli di quello Stato. L’allarme suonato a Jackson Hole da Christine Lagarde, nuovo Managing Director del Fondo Monetario Internazionale, pare dovuto al cambio di lavoro, che l’ha messa in condizione di dire quel che prima non poteva: le banche hanno bisogno di tanti soldi.

Affrontare i problemi delle banche partendo dal nodo della loro sorveglianza, potrebbe, in non piccola misura, aiutare ad aggredire anche quelli del debito sovrano. Ciò richiederebbe di far decadere, sotto l’urto degli avvenimenti, l’impostazione del gruppo di studio di de Larosière, ripartendo invece dall’idea promossa fra gli altri da Barry Eichengreen: mettere assieme la politica monetaria e la supervisione, almeno delle grandi banche dell’Eurozona. Se questo “consolidamento” facesse paura (per l’enorme potere che le Bce accumulerebbe), si potrebbe affidare ad altra entità dell’Eurozona la supervisione bancaria ed il ruolo conseguente di vero, sostanziale prestatore di ultima istanza alle grandi banche. Quasi un anticipo di quel Ministro delle Finanze dell’Eurozona di cui parlò a inizio estate Trichet ad Aquisgrana. Ciò potrebbe aprire la via ad una maggior integrazione partendo dal lato della sorveglianza sulle banche, senza infiammare i nazionalismi come invece accade se si parla di unione fiscale.

Nelle crisi si nascondono le opportunità, si dice. Come ho già sostenuto qui nel post “Stark e Berlusconi, la fuga incrociata che terrorizza l’Europa”, quel che alla Germania non riuscì con due spaventose guerre, potrebbe riuscire ora in pace, e perfino su richiesta di altri Stati dell’Eurozona: non annettersi l’Europa, certo, ma divenirne lo Stato guida sì. Guida non solo economica (quello lo è già), anche politica. Servirebbe però, e non solo da parte tedesca, grande lungimiranza, con un’equilibrata percezione del gioco degli interessi sulla scena europea e mondiale. Se non si procede sulla strada giusta prima, con calma e razionalità, si rischia di doverlo fare dopo, sotto l’incalzare degli avvenimenti, quando mancherà la lucidità per decisioni meditate e magari potrebbe essere tardi per sopire le tensioni nazionalistiche risorgenti. Nel collasso dell’Unione Europea che ne deriverebbe, come escludere il ritorno ai metodi antichi per dirimere i contrasti fra gli Stati europei?