La crisi economica richiede nuove forme di consulenza finanziaria

Una delle frustrazioni più grandi per un consulente è affermare “io lo avevo detto”. Questo per molti motivi, il primo  perché nessuno ti crede e pensa che stai cercando di crearti l’immagine del Guru che, diciamo la verità, non ti si addice per niente. Il secondo motivo, molto più serio è perché significa che nessuno ti si è filato, i Clienti hanno continuato a fare quello che credevano e, anche se ti hanno pagato regolarmente, non hanno seguito i tuoi consigli.

Nel 2007, in piena crescita economica, avevo detto ad alcuni imprenditori di fare attenzione con gli investimenti nei quali si stavano pesantemente impegnando, perché la crescita non sarebbe durata ancora a lungo e, probabilmente, ci saremmo dovuti aspettare un periodo di recessione.

Quella volta non mi hanno preso a pernacchie soltanto perché, comunque, un po’ di stima nei miei confronti ce l’hanno, ma hanno ritenuto poco credibile la mia previsione, dal momento che tutti gli indicatori sembravano affermare l’esatto contrario.

Nel 2010, quando in crisi c’eravamo già, le mie affermazioni pessimistiche sul fatto che di crisi strutturale si trattava e non di semplice e passeggero calo degli ordinativi, erano state lette come eccesso di prudenza. Alle mie affermazioni che stavamo pagando al momento una crisi finanziaria, che poi sarebbe diventata economica e successivamente avrebbe avuto dei pesanti risvolti sociali, tutti affermavano, ottimisticamente, che si sarebbe trattato di un periodo, come ce ne sono ciclicamente, di calo della domanda e che tutto si sarebbe messo a posto nel giro di pochi mesi, massimo di un anno. Anche le dichiarazioni dei politici in generale e dei nostri governanti in particolare, propendevano per tale ipotesi.

Oggi sappiamo che le cose non stavano così. Ma il problema è che il pessimismo che oggi serpeggia tra gli imprenditori, che come risultato ha il taglio netto dei costi a breve e degli investimenti a medio-lungo,  non risolverà da solo i problemi. Stiamo pagando, noi italiani, una grave crisi strutturale, della quale sicuramente è in gran parte responsabile la nostra classe politica che non ha saputo dare all’Italia quell’assetto organizzativo e quegli asset che sono necessari per competere, ma che in parte è anche causa della miopia di molti imprenditori che non riescono a concepire il fatto che il mercato, come noi lo concepivamo fino a qualche anno fa, non esiste più.

Questa non è una crisi, quello che sta accadendo, darwinianamente parlando, sta alle crisi periodiche come una glaciazione sta ad una nevicata invernale. Questo è, continuando nella metafora ambientale, un cambiamento climatico e soltanto le aziende che  saranno capaci di adattarsi all’ambiente modificato riusciranno a sopravvivere, le altre saranno destinate alla morte, come i dinosauri nel Mesozoico.

Secondo le ultime statistiche ISTAT le microaziende con meno di 10 dipendenti rappresentano il 97% del tessuto produttivo nazionale. Questo non è detto che, in termini assoluti, sia un male, perché strutture di questo genere hanno sicuramente una flessibilità maggiore, sono più rapide a cambiare pelle, ma per farlo è necessario che gli imprenditori comprendano che il modello di sviluppo è cambiato e che quello che andava bene soltanto qualche anno fa, oggi non funziona più. Chi continuerà a credere che l’unica leva di mercato è il prezzo sarà sicuramente destinato a fallire, perché essere leader in un settore in cui vince chi vende a prezzo più basso, ci farà immediatamente perdere il predominio nel momento in cui entrerà un concorrente con prezzi più bassi.

Oggi in Italia c’è il costo del lavoro più elevato di tutti i paesi industrializzati e, ovviamente, dei paesi emergenti. Siamo inoltre penalizzati dal fatto che gli stipendi sono tra i più bassi d’Europa. Questo cosa significa? Significa che la domanda interna sarà destinata a calare e ci sarà spazio per l’entrata di nuovi competitor con prodotti a prezzi più bassi. Certo, questo è un problema che deve risolvere lo Stato, ma non possiamo stare ad aspettare che lo facciano. E’ assolutamente inutile che arrivi la medicina per risolvere il tuo male quando sei già morto.

Quindi la soluzione per le imprese è tentare la via dell’internazionalizzazione, cercando di aggredire mercati più solidi. Ma questo non si può fare soltanto con il prezzo, perché ovunque ci sarà qualcuno che avrà un prezzo più basso.

Già Theodore Levitt, economista americano, padre delle teorie sulla globalizzazione, sosteneva che  i paesi industrializzati devono concentrare la loro produzione nella fascia alta di mercato. E di questo abbiamo notevoli esempi anche in Italia, dove aziende che si sono riposizionate in segmenti di mercato di fascia alta, sono riuscite a superare il problema del prezzo che, ricordiamolo, è soltanto una delle 4P del marketing mix (Product, Price, Place, Promotion), e sono riuscite a conquistare nicchie importanti di mercato in paesi ricchi e senza bisogno di delocalizzare la produzione e impoverire la propria terra d’origine.

 

Articolo e testo ripreso dal blog di rudivittori.com