La crisi finanziaria non e’ ciclica bensi’ strutturale

Se il discorso che il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke ha recentemente tenuto all’incontro annuale dei banchieri di Jackson Hole fosse stato l’introduzione di una tesi di laurea, il candidato sarebbe stato bocciato. Raramente si è sentito un pronunciamento sulla situazione economica americana e globale così contraddittorio e generico. Bernanke si è detto ottimista, ma anche pessimista. Si aspettava una ripresa più solida, ma c’è stata una caduta più  pronunciata. Credeva in un rilancio in tempi brevi, ma ammette che la terapia potrebbe durare a lungo.

Di concreto ha detto soltanto una cosa: la Fed avrebbe comunicato nella riunione del 20-21settembre del suo Federal Open Market Committee “i mezzi necessari per stimolare la ripresa economica”. In parole povere si sta allestendo un altro, il terzo, “quantitative easing”, cioè la stampa di nuovi dollari per acquistare i Treasury bond che il governo emetterà a sostegno di un debito crescente e per investimenti nei lavori pubblici. Si ricordi che l’anno prima, sempre a Jackson Hole, la Fed annunciò una iniezione di nuova liquidità per 600 miliardi di dollari che è stata interamente utilizzata tra gennaio e giugno senza riuscire a modificare l’andamento negativo della crisi, della produzione e dell’occupazione. Tant’è che esaurita questa dose di liquidità il governo Usa si è trovato sulla soglia della bancarotta! Inoltre in tre anni il bilancio della Fed è triplicato. Complessivamente ammonta a poco meno di 3.000 miliardi di dollari.

Le vere ragioni del ritardo di un mese

Le vere ragioni del posticipo di un mese delle misure annunciate da Bernanke sono due. La prima è che il bilancio fiscale americano chiude alla fine di settembre, quando il governo e il Congresso sono tenuti a presentare il budget per il 2012. Evidentemente la Fed insiste per ottenere dei tagli più drastici nel settore della sanità e dei servizi sociali. La seconda è la non nascosta pressione sulla Banca Centrale Europea affinché applichi la sua stessa politica ed eventualmente annunci un “quantitative easing” europeo, fingendo di ignorare che ciò potrebbe far saltare l’architettura dell’Unione europea. Se c’è una cosa che la Bundesbank e Berlino difficilmente tollerano è il rischio di un’impennata inflazionistica. Il discorso di Bernanke per certi aspetti rivela la sua impotenza come banchiere centrale. Ha ripetuto per ben 8 volte la  parola “recession”, mentre al Jackson Hole del 2010 non era mai stata menzionata. Per recessione, come noto, si intende la contrazione del ciclo economico e un rallentamento delle attività economiche. Di conseguenza il pil, l’occupazione, gli investimenti, l’utilizzazione degli impianti, il reddito delle famiglie e i profitti calano,  mentre aumentano i fallimenti e la disoccupazione. L’inflazione tende a scendere all’inizio ma poi può assumere atteggiamenti “ballerini” I governi solitamente rispondono a questa emergenza attraverso la creazione di maggiore liquidità, l’aumento della spesa pubblica e la riduzione delle tasse. Dal 2008 queste misure non funzionano più.

Davanti alla depressione gli “gnomi” nel pallone

Nel mondo occidentale c’è stata una recessione di tipo “L” con una tendenza dell’asticella orizzontale a cedere  ulteriormente.

Dopo tre anni, tutte le scuole ufficiali di economia non la chiamano più recessione ma depressione economica. Ed è qui che gli gnomi della Fed sono andati “nel pallone”. Bernanke parla ancora di crisi ciclica e non sistemica. Infatti nel suo discorso ha spiegato che dalla fase di crisi ciclica si aspettava un “processo naturale di ripresa”. Bernanke ci insegna che ”in passato simili crisi, tali recessioni, avevano normalmente sparso i semi per la loro stessa soluzione e per la ripresa, in quanto la riduzione delle spesa in investimenti, case e beni di consumo durevoli genera un rilancio contenuto della domanda. Mentre il ciclo economico tocca il fondo e rimbalza e la fiducia ritorna, la ripresa contenuta della domanda, spesso sostenuta da stimoli monetari e fiscali, incontra anche un aumento della produzione e dell’occupazione. L’aumento della produzione a sua volta fa crescere i profitti e i redditi delle famiglie e aggiunge impeto ai consumi delle imprese e delle famiglie. Questo aumento di reddito dei cittadini e delle imprese li rende più solvibili e le istituzioni finanziarie sono così più propense a concedere nuovi crediti. Di solito tali sviluppi creano un circolo virtuoso..” E la giostra va!

Ma questa volta l’immobiliare non può fare da padrone

La decisioni del presidente Obama di investire 450 miliardi di dollari soprattutto in piccole infrastrutture e nei settori immobiliari pubblici è l’ovvia risposta che asseconda il “Bernanke pensiero”. Ecco spiegata tutta la banale teoria dello “yo-yo” che dal dopoguerra ad oggi ha dominato i centri del potere economico e monetario americano, a cominciare dalla Federal Reserve. In passato negli Stati Uniti il settore immobiliare e delle costruzioni di nuove case è sempre stato uno dei motori della ripresa. Non questa volta. Dal 2006 il deprezzamento del valore degli immobili è stato in media del 35%.

L’attuale tasso di costruzione di nuove case è meno di un terzo di quello del periodo precedente alla crisi. Credere che case prefabbricate di legno, che erano arrivate a costare fino mezzo milione di dollari, possano ritornare a quei livelli è da folli.

Inoltre il settore immobiliare galleggia su un mare di oltre 10.000 miliardi di titoli. Molti dei quali tossici. La metà è riferita ai soli due colossi delle ipoteche e dei mutui casa, Fannie Mae e Freddie Mac, tenuti in vita dalle continue flebo “governative”.

I rischi di un “global financial meltdown”

Bernanke dovrebbe tornare a studiare il significato di “crisi sistemica”. D’altra parte come ha lui stesso menzionato nel suo discorso, “La crisi finanziaria che ha attanagliato i mercati globali nel 2008 e nel 2009 è stata più severa di qualsiasi altra crisi dopo la Grande Depressione. I leader mondiali dell’economia hanno visto il rischio crescente di un ‘global financial meltdown’, lo scioglimento finanziario globale, nell’autunno del 2008”. Dovrebbe essere lapalissiano che di fronte ad un “meltdown” non bastano stimoli fiscali e tagli di bilancio. Occorre soprattutto mettere mano ad una profonda riforma e ad una seria rivisitazione delle regole per la grande finanza globale.

 

Articolo ripreso da lafinanzasulweb.it, Autore: Paolo Raimondi