Ripreso dal blog di Dario Di Vico, giornalista del Corriere della Sera tra i più attenti e informati sui fenomeni che caratterizzano la crisi delle imprese italiane, un articolo che tratteggia efficacemente i problemi nel rapporto tra il mondo universitario e il sistema imprese. Problemi che rallentano il tasso d’innovazione delle nostre imprese. Da leggere attentamente e da conservare:
Un articolo sulla ricerca potrebbe pericolosamente assomigliare a un comizio. Potrebbe essere pieno di maiuscole e di robuste esortazioni condite da quella retorica economica che si va imponendo quasi alla stregua di un genere letterario. Ma alla fine sarebbe utile solo all’autore e alla sua vanità giornalistica. Vi propongo invece un percorso diverso, tentare di capire cosa credibilmente possono fare l’industria e la ricerca qualora riuscissero a dialogare in una maniera più incisiva e fattiva di quanto non avvenga oggi.
E’ chiaro che pur ripetendo ad ogni piè sospinto che siamo la seconda manifattura d’Europa non possiamo rivendicare la stessa posizione nel ranking continentale per R&S. Eppure le nostre imprese non stanno ferme, se affinano continuamente i prodotti e se hanno risposto alla Grande Crisi con un eccezionale scatto nelle esportazioni non è solo merito del design o del marketing. Si stanno ri-specializzando ovvero stanno aggiornando la loro peculiare carta d’identità economico-produttiva aggiungendo qualcosa, accrescendo il loro valore competitivo nell’arena internazionale.
Questo “qualcosa” altro non è che innovazione incrementale, lenta e collaudata capacità di crescere nella catena del valore del proprio settore anticipando i concorrenti nelle ricerca di soluzioni nuove, nella contaminazione tra manifattura e servizio, nell’offerta chiavi in mano. Meno male che questa capacità esiste ed è testata dai successi che continuiamo a conseguire ma è anche vero che è legittimo chiedersi se non dovremmo/potremmo essere più ambiziosi.
Sarebbe interessante condurre una disanima del sistema industriale italiano settore per settore e individuare quali sono stati le vere discontinuità tecnologiche degli ultimi 30 anni, come le abbiamo affrontate e ragionare poi se in questo o quel comparto non esista a breve la possibilità di operare nuovi strappi. Di recente, per esempio, mi è capitato di ascoltare da parte di un top manager dell’industria della ceramica un discorso (sorprendente) che lasciava intravedere la possibilità di un nuovo salto tecnologico del distretto di Sassuolo che è uno dei vanti del made in Italy. Quindi ben venga l’innovazione incrementale ma non fermiamoci a quello stadio, poniamoci le domande giuste. Qualche risposta inaspettata potrà venir fuori perché è chiaro a tutti che per distanziare i nuovi produttori asiatici, turchi o polacchi, non si può rimaner fermi.
E’ altrettanto evidente come in altri Paesi la diffusione delle chance di innovazione venga seguita con maggiore continuità e organizzazione, le Pmi non sono lasciate sole con le loro esigenze di innovare ma il soggetto pubblico viene incontro all’iniziativa privata e al mercato con formule miste per contemperare i costi della ricerca di base con gli obiettivi della ricerca applicata.
Da noi ogni tanto si rilancia da parte di osservatori illuminati l’obiettivo di costruire qualcosa che assomigli agli istituti Fraunhofer tedeschi ma poi non se ne fa niente perché allo Stato o alle Regioni mancano i soldi, le banche non ci credono veramente, le associazioni cadono preda del vorrei ma non posso.
Che fare, allora? Da dove partire? La risposta non può che essere “dalle università”. I dati sull’aumento degli spin off accademici fanno ben sperare, è bene che le start up possano giovarsi della competenza di professori e laureandi e scelgano quindi il loro percorso dentro le specializzazioni che più possono servire alla nostra economia.
Dove invece siamo indietro è nel coinvolgimento delle università in quanto tali, i rettori preferiscono la logica della torre d’avorio e non si aprono al nuovo. Prendiamo un’università come quella di Padova che pure ha ricevuti lusinghieri riconoscimenti dalle classifiche specializzate ed è inserita in un contesto territoriale dove l’imprenditoria è un valore fortemente condiviso: ebbene la collaborazione con le imprese è al minimo, aziende e accademia non si parlano. Si può essere più autolesionisti di così?
Dario Di Vico
Post ripreso dal sito Linkerblog – autore Bolognini F.