Il viceministro dello Sviluppo economico, Mario Ciaccia, ha proposto l’esenzione dall’Iva degli investimenti infrastrutturali “per i quali sia accertato, dal punto di vista tecnico, che non sono sostenibili per un piano economico e finanziario con l’attuale gravame di Iva”. L’entusiasmo degli operatori è fuoriluogo per almeno due ragioni. Primo: non si farà. Secondo: se lo si facesse, sarebbe sbagliato.
Cominciamo col tagliare la testa al toro. Dalla tribuna del meeting di Rimini, Ciaccia ha chiarito:
Penso a una sterilizzazione totale dell’Iva con un impatto di 5-6 punti di Pil e la creazione di centinaia di posti di lavoro.
Promettere costa poco, ma mantenere costa eccome. Prevedere – se interpreto bene le parole di Ciaccia – un onere per le finanze pubbliche di 5-6 punti di Pil significa avere in testa una cifra dell’ordine degli 80-100 miliardi di euro, che andrebbe confrontata con l’intero gettito 2011 delle imposte indirette pari a 222 miliardi di euro.
Peraltro, non è chiaro da dove salti fuori la stima dei 5-6 punti di Pil (l’Italia è un paese dove a un ministro o viceministro è consentito sparare numeri a casaccio senza che nessuno gliene chieda conto). A occhio pare sovradimensionata comunque la si guardi. Per dare un riferimento, l’intero comparto autostradale ha generato, nel 2011, introiti da pedaggio per poco meno di 7 miliardi di euro. Comunque, prendiamola pure per buona: 7 o 70 miliardi di euro che siano, poco cambia.
Infatti, pensare di ricavare una cifra tanto alta tra le pieghe del bilancio è assolutamente irrealistico, a meno che non si accompagni la proposta con un lungo elenco di tagli che si intendono effettuare. Poiché il viceministro Ciaccia non si è distinto, negli ultimi mesi, per il suo attivismo nell’individuare rami secchi da segare, come minimo è lecito un po’ di scetticismo.
Questo basterebbe a chiudere la discussione ma c’è un aspetto più importante. Da un lato, non credo che – ammesso sia possibile trovare 100 miliardi di euro – destinarli al settore infrastrutturale sia la cosa giusta da fare. Ridurre imposte distorsive che gravano sull’intera economia, come l’Irap, è probabilmente più urgente (l’Irap vale una trentina di miliardi). Dall’altro, siamo sicuri che – se l’obiettivo è avere più infrastrutture – l’introduzione dell’ennesimo regime fiscale speciale sia la cosa giusta da fare?
Non c’è dubbio che più investimenti infrastrutturali sarebbero necessari al paese, la cui insufficiente dotazione infrastrutturale è una delle cause (non l’unica e probabilmente non la più importante) della bassa competitività.
In ordine crescente di importanza:
1) Non è chiaro cosa intenda Ciaccia quando dice che la defiscalizzazione sarebbe riservata alle opere “che non sono sostenibili per un piano economico e finanziario”. Significa che gli investimenti di per sé sostenibili non ne godrebbero? E che, dunque, le “cattive” infrastrutture diventerebbero relativamente più convenienti rispetto a quelle “buone”? Più cattedrali nel deserto per tutti!
2) L’unica cosa che non manca in Italia sono le eccezioni fiscali, ed è evidente a tutti che la complessità del sistema tributario è una delle ragioni per cui il paese è poco attrattivo verso gli investimenti stranieri (inclusi quelli infrastrutturali). Concedere un privilegio fiscale – la defiscalizzazione Iva – è il tipico provvedimento che si osserva in un paese dove i cittadini sono sudditi, e dove quindi solo dalla benevolenza del sovrano può derivare un trattamento decente. Solo che il sovrano, oltre che benevolente, è anche volubile, e come dà, potrebbe togliere: poiché nessuno si fida dello Stato italiano, et pour cause, l’unico effetto della manovra sarebbe di sussidiare coloro che hanno già deciso di investire in infrastrutture qui, e che in buona parte potrebbero rivelarsi soggetti statali, parastatali e affini. Al contrario, è dimostrato che proprio la volubilità è la ragione principale degli investimenti insufficienti e/o troppo costosi.
3) Piuttosto che aumentare la volubilità del sovrano, sarebbe utile introdurre elementi di certezza nel sistema. Tra questi elementi c’è l’Autorità delle infrastrutture, a lungo attesa e finalmente introdotta dai vari decreti Monti. La sede dell’Autorità avrebbe dovuto essere individuata entro il 30 aprile e il collegio designato entro il 31 maggio, solo che tutto è passato in cavalleria – tra l’altro – per la apparente inadeguatezza di alcuni dei membri designati, oltre che per la pretesa del governo di imbottire lo staff del regolatore di funzionari ministeriali. Qualcuno batta un colpo: l’Autorità costerebbe molto meno di 5-6 punti di Pil e varrebbe molto di più! (Per inciso: il piano aeroporti di cui si è parlato non è diverso da quello voluto anni fa dal ministro comunista Alessandro Bianchi, di cui Andrea Giuricin si occupò qui, ossia l’esatto contrario della certezza delle regole, in quanto avrebbe significato la massima discrezionalità per i politici al governo).
4) Anziché introdurre regimi fiscali di favore, sarebbe più urgente eliminare i regimi di sfavore. Per stare al campo infrastrutturale, penso all’assurdo tetto dell’1 per cento alla deducibilità fiscale degli ammortamenti per i concessionari autostradali, mentre tutti gli altri concessionari hanno un tetto del 5 per cento. All’attrattività del paese questo tipo di interventi fa molto più male di quanto possa far bene la promessa di una poco credibile (e in ogni caso poco affidabile nel lungo termine) defiscalizzazione.
In questo senso, ha certamente ragione Giorgio Santilli quando declina la proposta nel senso del “fisco buono”, ma il fisco – per essere buono – deve anzitutto essere conoscibile e imparziale. Introdurre trattamenti differenziati per questo e quello rischia di farci fare poca strada, specie quando il diverso trattamento rischia di riflettere la mera discrezionalità di un ministro (che magari il ministro successivo non condividerà) e potrebbe rivelarsi un trasferimento di ricchezza ai soliti noti (pubblici, in maggioranza).
Al paese non servono ulteriori eccezioni, per quanto giustificate: serve normalità.
Articolo ripreso da Chicago-Blog.it