Nostro commento: una prospettiva difficile anche da credere, ma la storia ci insegna che talvolta i conflitti nascono nelle maniere piu’ inaspettate.
Il ministro delle Finanze polacco ha evocato il rischio di un ritorno dei conflitti sul continente nel caso in cui la moneta comune venisse affondata.
In queste settimane di borse in altalena e panico generalizzato, di parole sulla crisi che sta scuotendo l’area euro se ne sono spese tante ma quelle del ministro delle Finanze polacco Jacek Rostowski hanno fatto molto rumore.
Rostowski, parlando a Strasburgo mercoledì 14 settembre, davanti ai membri del parlamento europeo, ha riferito una conversazione avuta con “un vecchio amico che ora dirige una grossa banca”, nel corso della quale il banchiere avrebbe commentato la crisi dell’eurozona dicendo: “Guarda, dopo tutti questi shock politici ed economici, è davvero difficile che riusciremo ad evitare una guerra”. Probabilmente, Rostowski stava parlando di un qualche pezzo grosso della svizzera Ubs, dal cui quartier generale il 6 settembre era uscito un dossier intitolato Euro Break Up: the Consequences, firmato dagli analisti Stephane Deo, Paul Donovan e Larry Hathaway. Un documento snello, appena 21 pagine, che dimostra che per risolvere la crisi dell’euro non ci sono scorciatoie, che tutti i discorsi sull’espulsione di un membro sull’orlo del crack o la defezione di uno stato che volesse sfuggire alla crisi non hanno senso.
Lo studio sviluppa parallelamente due ipotesi: la prima, che ad uscire dall’euro, consensualmente o per espulsione, sia un Paese piccolo, per peso economico e popolazione, come la Grecia o il Portogallo; la seconda, che al contrario “attraversi la linea del Rubicone” un peso massimo, come la Germania, per ragioni contrarie. Gli analisti calcolano che al primo l’uscita dall’euro costerebbe una cifra compresa tra il 40 e il 50 per cento del Pil soltanto nel primo anno; ogni cittadino dello stato in questione pagherebbe tra i 9500 e gli 11500 euro nei primi 12 mesi, e tra i tremila e i quattromila euro negli anni seguenti. Anche il secondo, però, pagherebbe un conto piuttosto salato per sbarazzarsi degli stati zavorra: tra un 20 e un 25 per cento del Pil nel primo anno, tra i sei e gli ottomila euro a cittadino, e tra i tremila e i 4500 in quelli seguenti. Se invece le economie più forti si accollassero il 50 per cento del debito complessivo di Grecia, Irlanda e Portogallo, i tedeschi pagherebbero mille euro circa, una volta sola. Suicidare l’euro – perché questo comporterebbe l’uscita di un membro, non importa quanto grande – non è conveniente.
Se l’area euro perdesse un membro, l’Europa tutta pagherebbe un costo politico enorme, sia per quanto riguarda le ripercussioni sull’intero progetto europeo, il funzionamento delle sue istituzioni che il peso nell’arena internazionale. Ma altrettanto spaventosi sono gli effetti economici in senso stretto. Cinque, quelli principali. Il primo è il default del debito sovrano, che comporta una situazione di insolvibilità. Il Paese si troverebbe ad avere un debito nominato in una valuta estera ma senza potere raccogliere quella moneta con le tasse. Dovrebbe quindi aumentare le esportazioni verso l’area euro per incassare più valuta pesante o, in alternativa, dovrebbe ricorrere ad una conversione forzosa del debito, il che costituirebbe agli occhi di molti investitori internazionali una prova di default. Gi analisti prendono anche in considerazione la probabilità che possa seguire anche un “corporate default” ma passano subito a considerare il secondo problema, quello del fallimento del sistema bancario nazionale, un meccanismo di trasmissione perfetto della crisi, a causa del panico che si diffonderebbe. Verosimilmente, molti cittadini ritirerebbero depositi e risparmi in euro prima della conversione nell’Nnc e li porterebbero all’estero o in caso di chiusura delle frontiere li seppellirebbero in giardino, come accadde con la fine dell’Unione monetaria degli Stati Uniti nel 1932-33. Il terzo e il quarto costo riguardano la rottura con l’Unione – dal momento che, spiegano gli analisti, uscire dall’Euro significa andare contro lo spirito dei Trattati ed equivale a essere fuori dall’Ue – e il ripristino di tariffe e barriere e un ritorno al protezionismo, scontato nel caso in cui la nuova moneta, soprattutto nel caso di un Paese piccolo, si deprezzasse considerevolmente e l’Unione reagisse proteggendo i propri mercati con l’imposiizone di tariffe sulla merce proveniente dallo stato uscente.
In questo scenario, il rischio di svolte autoritarie, disordine civile e guerra diventa estremamente reale. “La fine delle unione monetarie storicamente si è quasi sempre accompagnato a guerre civile e rivolte”, si legge a pagina 10. Nel 1993, quando Repubblica Ceca e Slovacchia si separarono, si arrivò alla chiusura delle frontiere, al controllo dei movimenti di capitali e a un limite sui prelievi. In Slovacchia in particolare per alcuni anni si assistette alla restrizione dei diritti politici e delle libertà civili. Anche il collasso dell’Unione Sovietica fu seguito dalla nascita di alcuni stati autoritari, ma milizie, sommosse e pistole spuntarono anche dopo il fallimento dell’Unione monetaria degli Stati Uniti nel 1932. Con l’uscita di un Paese dall’area euro, grande o piccolo non importa, il costo della membership per quelli rimanenti aumenterebbe e s’innesterebbe una spinta centrifuga. Ma il crollo dell’euro comporterebbe la fine dell’Ue e avrebbe dimensioni e ripercussioni inimmaginabili, dal momento che l’Ue oscilla tra il primo e il secondo posto per peso economico nel mondo. “I costi economici dello scioglimento dell’euro sono molto alti ed estremamente dannosi. Quelli politici sono talmente grandi da non essere quantificabili in soldi”, concludono gli analisti. La fine dell’euro è un’ipotesi da non accarezzare troppo.
Articolo ripreso da ariannaeditrice.it e pubblicato da Peace Reporter