La Francia dovra’ cambiare dopo le elezioni presidenziali del 2012

Mentre le elezioni presidenziali si avvicinano, la Francia sta arrivando ad un punto di rottura. Per trent’anni, sia con la destra che con la sinistra al potere, il paese ha perseguito gli stessi obiettivi incompatibili e contraddittori. Con la crisi del debito sovrano che sta mettendo al muro le banche francesi (e, di conseguenza, l’economia francese), si dovrà arrivare a concedere qualcosa in tempi brevi.

La stretta economica, che si verificherà molto probabilmente nell’anno o nei due anni successivi alle elezioni, provocherà un cambiamento radicale e doloroso, forse persino più estremo del coup d’état di Charles de Gaulle che portò all’instaurazione della Quinta Repubblica nel 1958.

La maggior parte dei politici e burocrati francesi considerano queste osservazioni allarmanti. Dopotutto, i trend degli indicatori chiave, come l’indice di indebitamento e il deficit del budget, non sono forse peggiori negli Stati Uniti e in Gran Bretagna? In effetti, se non fosse per l’euro, tanto caro alla classe politica francese, le difficoltà della Francia potrebbero essere paragonate a quelle degli “Anglo Sassoni”.

Ma se da un lato non è stato l’euro a causare i problemi economici della Francia, l’impegno dei politici francesi nei suoi confronti rappresenta un ostacolo insormontabile alla loro risoluzione. Il problema fondamentale è che il sistema di welfare troppo generoso del paese (nel 2010 la spesa pubblica era pari circa al 57% del PIL rispetto al 51% della Gran Bretagna ed il 48% della Germania) soffoca la crescita necessaria affinché l’euro rimanga vitale. 

I più gravi difetti strutturali riguardano i contributi elevati e la regolamentazione del mercato del lavoro che rendono difficile, o quantomeno altamente costoso, per le aziende  ridurre la forza lavoro in conseguenza di un calo del business. Secondo il rapporto dell’OCSE, nel 2010 la “tax wedge” della Francia (determinata dalle imposte sul reddito sommate ai contributi previdenziali del datore di lavoro e del dipendente, meno i trasferimenti diretti di denaro come percentuale dei costi complessivi di manodopera) era superiore di almeno 13 punti percentuali alla media dell’OCSE su tutti i livelli di reddito familiare.

Ciò ha portato ad elevati costi unitari della manodopera in relazione al peer group francese (in particolar modo rispetto alla Germania) e ad un alto livello di disoccupazione. Durante la presidenza di Valery Giscard d’Estaing negli anni ’70, la disoccupazione iniziò ad aumentare anno per anno raggiungendo il 6,3% nel 1980. Nel 1981 François Mitterrand, salito al potere, promise una crescita rapida ed un tasso minore di disoccupazione, ma si trovò ad affrontare un rallentamento economico ed un conseguente rialzo del tasso di disoccupazione. Entro il 1977 la disoccupazione aveva raggiunto l’11,4% e, da allora, è sceso al di sotto dell’8% solo nel corso del 2008.

Gli elevati costi unitari della manodopera ed un alto tasso di disoccupazione sono stati a turno responsabili di una riduzione del trend del tasso di crescita economica – principalmente a causa della manodopera sottoutilizzata – mentre la combinazione di una crescita debole e di un sistema di welfare sempre più pesante ha prodotto un deficit di budget cronico. L’ultimo surplus è stato infatti registrato nel 1974.

La campagna elettorale in corso è centrata, di conseguenza, proprio sulla posizione fiscale della Francia. Tutti sono d’accordo sul fatto che sia necessaria una riduzione del deficit, ma ci sono molti punti di vista diversi su come ottenerla. La cura proposta da Sarkozy è di incoraggiare la crescita riducendo il peso delle imposte sul reddito dei datori di lavoro, e aumentando allo stesso tempo il tasso dell’imposta sul valore aggiunto. Il suo principale oppositore, il leader socialista François Hollande, vorrebbe invece imporre tasse più elevate soprattutto sui ricchi, sul settore finanziario, ed anche sulle grandi aziende.

Con l’esclusione delle uniche soluzioni efficaci – ovvero una vera e propria unione politica dell’eurozona oppure l’abbandono dell’euro – quello che rimane da fare è cavarsela alla meglio. Un altro modo per definire quest’approccio è “transfer union” che prevede un’inflessibile austerità economica ed un peggioramento dello standard di vita a causa della determinazione dei paesi forti, primo fra tutti la Germania, a limitare la propria responsabilità nei piani di aiuto ai paesi in deficit ponendo come requisito per ottenere i trasferimenti severe restrizioni sul budget.

Allo stesso tempo, i mercati finanziari stanno cercando di imporre una restrizione sui governi in linea con i termini del nuovo trattato fiscale (sul quale la Germania, tra gli altri paesi, ha insistito). La domanda nelle economie dell’eurozona è quindi sempre più debole, mentre quella esterna, derivante dalla svalutazione dell’euro rispetto alle altre valute principali, non è in grado di compensare le conseguenze sulla crescita.

Il governo francese si aspetta che, entro il 2014, le entrate del budget saranno pari alle spese, ad eccezione del servizio del debito. Ma questa prospettiva implica una crescita continua, mentre la Francia sta entrando in recessione. Il deficit del budget continuerà quindi a persistere rendendo di conseguenza necessaria un’ulteriore restrizione.

E l’opinione pubblica farà buon viso a cattivo gioco o pretenderà un cambio radicale di direzione? Nel secondo caso il cambiamento dovrebbe essere portato avanti da una parte della principale classe politica che esce dai ranghi, oppure attraverso una sfida lanciata da un politico esterno che riesca ad avere successo, sia che si tratti del leader di destra del Fronte Nazionale Le Pen, o di Jean-Luc Mélenchon del Fronte di Sinistra. Entrambi i partiti stanno infatti focalizzando la loro campagna su una posizione protezionistica e anti-euro.

Sarkozy ha adottato una strategia da statista, come si addice a chi si trova nella sua posizione, annunciando agli elettori l’incombenza di una situazione difficile che comporterà un maggior numero di ore lavorative per uno stipendio orario più basso. Ma vendere all’opinione pubblica francese un cambiamento strutturale doloroso quale prezzo da pagare per l’ “Europa” non funziona più.

Secondo il programma di Hollande le misure dolorose potrebbero invece essere del tutto evitate attraverso un’attenuazione delle costrizioni imposte dall’Europa. Qualora fosse eletto, ha sottolineato, rinegozierebbe il trattato fiscale e cercherebbe di modificare gli statuti della Banca Centrale Europea, forse come segno di volontà di rompere con l’ortodossia europea. Ha poi promesso di imitare i suoi predecessori portando la Germania in linea con la prospettiva francese, ovvero arrivando ad usufruire dei trasferimenti fiscali tedeschi. In questo modo la Francia potrebbe continuare a rimanere salda al progetto europeo ad un costo più basso a discapito del tenore di vita a livello nazionale nel medio termine.

Questo era il tipico stratagemma che riusciva bene al mentore di Hollande, Miterrand, ma non perché fosse più astuto, ma piuttosto perché la Francia, rispetto ad oggi, godeva al tempo di una posizione più forte nei confronti della Germania.

La risposta della Francia alla tensione legata alla volontà di portare avanti il progetto europeo (e la valuta unica) e di evitare allo stesso tempo una depressione economica cronica sarà posticipare il più possibile il giorno della resa dei conti. Questa strategia senza via di uscita comporterà dei tentativi vani di mettere la Germania dalla sua parte e di usare espedienti economici disperati come l’essenziale utilizzo coercitivo del risparmio interno per finanziare il debito pubblico. Ma il giorno della resa dei conti arriverà, e allora le istituzioni governative saranno duramente giudicate.

 

Articolo ripreso dal sito finanzaediritto.it