La ricerca più recente sul “costo sociale” dei diversi strumenti di pagamento – contanti, elettronici, bancari, come assegni, bonifici, addebiti diretti – in Italia è stata pubblicata da Bankitalia.
Per costi sociali l’indagine intende i costi che la collettività sopporta per le risorse utilizzate dai diversi operatori economici per il regolamento delle transazioni. SI tratta di un’indagine a campione su istituti bancari, gestori di sistemi di pagamento ed che si è concentrata sui costi sostenuti nell’offerta/utilizzo dei servizi di pagamento da parte dei soggetti che partecipano alla catena del valore: banche, Poste spa, esercenti commerciali, imprese di pubblica utilità, esercenti (salta subito all’occhio l’assenza dei consumatori). Il costo sociale è costruito come somma dei costi sostenuti dai singoli operatori (i c.d. costi privati) ricompresi nel perimetro dell’indagine al netto dei flussi intermedi fra gli operatori (es. le commissioni pagate dagli esercenti alle banche).
Rimandando il dettaglio alla consultazione diretta dell’indagine, è utile evidenziare alcuni risultati. L’83 per cento delle transazioni di pagamento sono regolate in contante, percentuale che sale al 90 per cento se si considerano solo le operazioni presso esercenti al dettaglio. Per l’Italia i costi sociali complessivi di tutti gli strumenti di pagamento ammontano a circa 15 miliardi di euro, pari a circa l’1 per cento del PIL, valore in linea con la media (ponderata) dei tredici paesi partecipanti all’indagine europea. Il 49 per cento di tali costi è sostenuto da banche e infrastrutture per l’offerta dei servizi di pagamento (54 per cento nella media europea), il 51 per cento è a carico delle imprese (46 per cento nella media europea). Costi per circa 8 miliardi di euro, pari allo 0,52 per cento del PIL (valore superiore a quello, 0,40 per cento, rilevato nella media degli altri paesi europei), sono riconducibili all’utilizzo del contante.
Per quanto riguarda i costi assoluti per operazione, il contante è quello che costa meno (0,33 euro), contro gli 0,74 euro per le carte di debito e gli 1,91 euro per le carte di credito. Considerando però il valore medio dell’operazione (molto più bassa, 21,3 euro, rispetto alle carte elettroniche, 86,1 euro), in termini percentuali il contante ha un costo sociale più elevato, il 2 per cento, rispetto alle carte di debito (nelle quali sono comprese anche le prepagate) con l’1,07 e alle carte di credito, con l’1,92.
Il costo (unitario e in rapporto al valore della transazione) delle operazioni in contante in Italia è in linea con il valore medio europeo a fronte di un ricorso più elevato a tale mezzo di pagamento nel nostro Paese (83 per cento del totale dei pagamenti contro il 69 medio europeo). Il costo relativo della carta di debito rispetto al contante in Italia appare sensibilmente più elevato per il non pieno dispiegarsi delle economie di scala in questo segmento (circa 15 operazioni l’anno con carte di debito per abitante in Italia a fronte di quasi 40 nella media dei paesi partecipanti all’indagine). Con riferimento alle carte di credito, al minor costo rilevato in Italia concorre la minore incidenza degli oneri legati alla componente creditizia onerosa, relativamente meno sviluppata nel nostro Paese.
Basandosi su questi dati, la scarsa diffusione delle carte di credito nel nostro Paese avrebbe una qualche giustificazione obiettiva, costando come il contante. Lo studio di Bankitalia sottolinea giustamente che una comparazione tra strumenti solo a livello di costi non tiene conto delle diversità funzionali anche profonde.
Le carte di credito in Italia per esempio sono un servizio con una componente creditizia a interesse zero, una assicurativa in caso di utilizzo fraudolento e tutta una serie di servizi aggiuntivi, rispetto alle carte di debito. L’osservazione depotenzia però moltissimo il valore di un’analisi dei costi sociali degli strumenti di pagamento come guida ad una strategia per modificare le percentuali di utilizzo, in quanto non tiene conto del contenuto funzionale delle diverse possibilità, in altre parole il loro valore d’uso relativo e assoluto. Torneremo su questo alla fine dell’articolo, Ma le limitazioni del costo sociale sono altre e forse anche più gravi rimanendo nello stesso perimetro concettuale.
Innanzitutto, come ammette lo stesso studio di Bankitalia, i costi misurati rappresentano voci diverse nel conto economico dei diversi operatori indagati. Per gli istituti di credito, la componente di costo sociale rappresenta il costo interno di produzione di servizi che essi rivolgono alla clientela e che producono un ricavo e un profitto.
Per gli esercenti (che comprendono anche Poste Spa per la componente di servizio non finanziario), il costo rappresenta un costo puro di produzione di un servizio, la vendita al dettaglio, di natura diversa. La ragion d’essere dell’esercente è vendere al maggior numero possibile di clienti: fornire diverse possibilità di pagamento rappresenta un’arma competitiva. Anche se il costo di gestione del contante è elevato per gli esercenti, nessuno di essi rinuncerebbe ad accettare i pagamenti sic et simpliciter.
Dai costi sociali mancano infine, come visto, i costi monetari per gli utilizzatori finali, i privati. In mancanza di dati, si può supporre che la gerarchia degli strumenti si ribalterebbe, con il contante meno costoso. Sottolineare, come molta comunicazione ha fatto nel recente passato, i costi sociali del contante, è un’arma inefficace per convincere i principali decisori, i consumatori, a cambiare il proprio comportamento. I consumatori, infatti, come tutti gli altri operatori, vedono i propri costi e valutano in base a quelli. E il contante costa meno.
Lo stesso studio Bankitalia cerca di inserire, solo per i privati, un correttivo legato a considerazioni sul rischio di furti, all’impiego del tempo, eccetera. Non applicando lo stesso criterio, che è poi quello del valore d’uso, anche agli altri operatori, lascia però l’indagine monca e poco utilizzabile. Per esempio, la grande distribuzione organizzata trae una gran parte del proprio margine operativo dalla differente scadenza temporale degli incassi e dei pagamenti verso i fornitori. La disponibilità di contante, in quest’ottica, ha un valore d’uso fondamentale. La maggior parte degli operatori della GDO, infatti, sta investendo per ridurre il costo di gestione del contante (aumentando l’automazione e riducendo la frequenza di ritiro), in misura molto maggiore che non per sostituirlo con altri sistemi di pagamento.
Se non si tiene conto della centralità del valore d’uso rispetto al semplice costo non si riuscirà mai a definire strategie e componenti d’offerta per ridurre la percentuale di transazioni regolate in contante. Si può anzi arrivare a suggerimenti paradossali come quello che chiude l’indagine: aumentare per i clienti delle banche i costi di utilizzo del contante per portarli in linea con i costi di gestione dello stesso per le banche. Chi scrive ha come l’impressione che il suggerimento cadrà nel vuoto.
Fonte: articolo pubblicato sul sito icbpi.it