Non sono soltanto lo spread tra titoli italiani e tedeschi e lo scivolamento della borsa, a dover preoccupare in queste settimane per le sorti del nostro paese. Le notizie che incalzano sul fronte dell’economia “reale” e in particolare quelle relative al mondo delle imprese non sembrano molto più incoraggianti.
Negli scorsi mesi abbiamo passato in rassegna la situazione e le prospettive di una ventina di grandi gruppi italiani, alle prese da una parte con la crisi in atto, dall’altra con i processi di globalizzazione e le decisioni, o le mancate decisioni, della politica nazionale.
Non si può certo dire che il quadro complessivo che a suo tempo si poteva trarre dalla rassegna lasciasse spazio a un grande ottimismo. Ma le vicende più recenti, in parte elenchate qui di seguito e che toccano alcune grandi e medio-grandi imprese nazionali, sembrano mostrare un quadro ancora più preoccupante e degradato, sia pure certamente in linea con quanto si poteva immaginare o si poteva già intravedere.
Le vicende in corso
Abbiamo provato in effetti a mettere insieme una serie di notizie apparse nelle ultime settimane, quasi tutte sulla stampa nazionale e che riguardano una decina di gruppi di casa nostra, alcuni dei quali già presi in considerazione nell’inchiesta precedente.
Cominciamo da due imprese che registrano ancora una rilevante presenza pubblica nel capitale, Finmeccanica e Fincantieri.
Per quanto riguarda la prima, si è fatta in pochi mesi più grave una tendenza già intravista in precedenza: quella la riduzione dei budget militari della gran parte dei paesi occidentali per i tagli alla spesa pubblica, tendenza preoccupante per un gruppo che aveva puntato molte delle sue speranze sul settore bellico e che negli ultimi anni aveva intrapreso un grande programma di investimenti centrato su tale comparto, anche all’estero, in particolare negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Intanto anche le speranze riposte dall’azienda nello sviluppo del nucleare si sono evaporate. Verrebbe quasi voglia di dire: peggio per loro, se non fosse per il destino ora incerto di tanti lavoratori e per quello del sistema industriale italiano nel suo complesso.
Nel frattempo, un secondo colpo, a prima vista non meno grave, è venuto fuori dalla rivelazione dei traffici dei vari Bisignani, Lavitola, Mokbel, Tarantino, intorno alla stessa azienda e del possibile coinvolgimento anche dell’amministratore delegato dell’azienda, Guarguaglini e della sua consorte in affari poco leciti. Intanto, come peraltro prevedibile, il governo sembra del tutto assente da qualsiasi serio intervento di politica industriale nei settori dell’energia e dei trasporti, che avrebbero potuto costituire possibili campi di diversificazione, più utili al paese di quelli delle armi e del nucleare.
Il gruppo rischia ormai molto e ha, tra l’altro, posto sul mercato Ansaldo Breda, che perde molti soldi anche a causa del management che l’ha mandata progressivamente alla deriva. Così l’Italia, dopo aver venduto ai francesi qualche anno fa la produzione dei treni ad alta velocità, cede adesso l’ultima importante sua presenza nel settore ferroviario.
Intanto, mentre Finmeccanica piange e sulla stampa appaiono articoli molto allarmati, anche Fincantieri non ride. Mentre i produttori asiatici e in prima linea cinesi e coreani conquistavano fette crescenti del business della cantieristica navale per diventare oggi di gran lunga la presenza dominante sulla scena mondiale, a scapito dei produttori europei, i gruppi dirigenti dell’impresa, complice peraltro tutto il sistema paese, stavano in sostanza a guardare. Ora la realtà del mercato globale ha obbligato tutti a un brusco risveglio. In luglio l’impresa annunciava la chiusura di due cantieri sugli otto esistenti, Sestri Ponente e Castellamare di Stabia, una misura poi ritirata sulla pressione delle parti sociali che hanno spinto anche il governo a intervenire. Si stanno ora studiando con affanno misure alternative, ma probabilmente ancora abbastanza drastiche, in particolare con il possibile varo di un rilevante piano di esuberi. Ma le prospettive dell’azienda appaiono nell’insieme abbastanza complesse e comunque difficili.
Continua intanto con immutato successo, anche se con passo relativamente lento, la conquista francese di parecchi dei nostri bocconi migliori, nonostante le velleitarie e propagandistiche opposizioni del governo e l’apparente ostilità del paese. Dopo l’acquisizione recente di Bulgari e di Parmalat – impresa quest’ultima che i francesi, come previsto, stanno svuotando delle sue liquidità per ripagarsi di una fetta consistente del prezzo d’acquisto pagato – sta andando avanti l’operazione di presa definitiva della Edison, che potrebbe concludersi entro poche settimane. Le parti, il 28 ottobre 2011, sono arrivate a un accordo di principio sulla questione. Nel frattempo, matura in silenzio l’operazione di conquista dell’Alitalia, tra l’altro con un’infiltrazione progressiva dei francesi dell’Air France nei gangli vitali dell’azienda e mentre il gruppo dirigente della società italiana oscilla tra un sentimento di rassegnazione e uno di collaborazione con i prossimi padroni.
Passiamo ad altro. Il gruppo Ligresti appare da molto tempo il simbolo stesso di un “capitalismo senza capitale” e di un rapporto organico con il potere politico sulla base di rapporti di scambio oscuri, entrambi fenomeni caratteristici di tanta parte del nostro sistema imprenditoriale. Ora, nel corso dell’inchiesta già citata, ricordavamo come il gruppo, operante, tra l’altro, nel settore immobiliare e assicurativo, stesse attraversando un periodo di rilevanti difficoltà economiche e finanziarie. Nel frattempo, nonostante i tradizionali appoggi politici e quelli di alcune grandi banche, la crisi dell’impresa si va aggravando e i progetti di ristrutturazione continuano a presentare difficoltà rilevanti di messa a punto. Grava anche in questo caso la minaccia dei capitali francesi, pronti a raccogliere l’ennesima occasione, in mancanza di un’alternativa nazionale credibile in particolare sul fronte finanziario.
Che dire poi degli sviluppi recenti della vicenda Fiat? Mentre Marchionne non perde occasione per attaccare la Fiom e ormai anche la stessa Confindustria e mentre il governo continua invece ad aggiustare le leggi in materia sindacale ad usum delphini, si aggravano le notizie relative al calo dei livelli di vendita e delle quote di mercato della casa torinese; peraltro i risultati economici complessivi sembrano reggere, grazie in particolare al buon andamento di Chrysler.
Le ultime informazioni disponibili parlano ormai di una quota di mercato scesa in Europa al 6,5% del totale, tornando sostanzialmente a quella che l’impresa aveva nel momento più buio della sua crisi, nel 2002 e 2003. Pesano indubbiamente sui livelli produttivi del gruppo le difficoltà del mercato dell’auto nel continente, ma pesa ancora di più la mancanza di modelli nuovi e credibili e l’assenza di prospettive adeguate in un’area come l’Asia, oggi al centro della gran parte dei giochi nel settore; intanto sembra diventare sempre più vicina la prospettiva dello spostamento del quartier generale dell’auto da Torino a Detroit, con la possibile eliminazione di migliaia di posti di lavoro, nonché di un’altra presenza industriale molto rilevante nel nostro paese.
Intanto, forse in linea con le difficoltà di vendita dei suoi prodotti in Italia e in Europa, si appesantisce anche, secondo le ultime notizie, il livello di indebitamento complessivo del gruppo.
Nel frattempo, come ci ricordano i giornali, buona parte dell’industria nazionale di ingegneria e design del settore, abbandonata totalmente dal gruppo, che rappresentava invece in passato il suo principale ancoraggio di mercato, o ha chiuso o è passata al “nemico”, tedesco o cinese che sia. I produttori cinesi, nel frattempo, si gloriano nelle loro campagne pubblicitarie, del fatto che le loro vetture sono disegnate nel nostro paese mentre corteggiano in molti modi le imprese torinesi, da Pininfarina a Bertone. Anche in questo caso, ovviamente, il governo brilla per la sua assenza. Un destino per alcuni aspetti simile si sta registrando anche in altri settori, compresa la moda.
Solo un cenno alle vicende recenti della Rai. Si tratta di un’azienda ormai palesemente allo sbando, che non sa più come fare per affrontare le scadenze finanziarie dei prossimi mesi, stretta come è tra le invadenze delle cricche governative, la correlata – almeno in parte – distrazione del management, la concorrenza che sente odore di sangue e l’enorme evasione del canone.
Dulcis in fundo, la situazione di Marcegaglia. Certo essa non è catastrofica, né strategicamente, né finanziariamente, come quella di almeno alcune delle imprese sopra citate, ma non di meno presenta problemi rilevanti. Sono tre anni che l’impresa sostanzialmente non guadagna, toccata fortemente dal vortice della crisi di mercato, anche se registra di recente una ripresa almeno parziale del suo fatturato. Inoltre e soprattutto, se confrontiamo i suoi bilanci e il suo posizionamento strategico con quello delle più importanti imprese concorrenti del settore, nonostante gli sforzi di miglioramento portati avanti negli ultimi anni dalla casa lombarda, non possiamo non registrare la grande distanza che separa la sua situazione da quella dei migliori competitor. Caso di scuola questo che appare indicativo di una difficoltà più generale delle imprese nazionali a tenere il passo con il resto del mondo.
Conclusioni
L’analisi della situazione attuale e delle prospettive di diverse imprese nazionali di grandi dimensioni mostra indubitabilmente le difficoltà crescenti del nostro sistema industriale nel “combattere” adeguatamente sul mercato mondiale. La concorrenza internazionale sempre più aspra, l’assenza di politiche pubbliche di qualche rilievo, la carenza di risorse finanziarie e, in certi casi almeno, di un management adeguato alle necessità, in presenza di una crisi che non molla certo la presa, continuano a esercitare una pressione rilevante su di un sistema, quello della grande impresa nazionale, ormai sostanzialmente allo stremo, come del resto gran parte del paese.
Articolo ripreso da sbilanciamoci.info