Il vertice di Mosca dei Paesi del G20 almeno un risultato lo ha prodotto. Le prime potenze del mondo avvertono infatti che un’altra e più pesante crisi finanziaria è in arrivo e che essa lascerà dietro di sé soltanto macerie, aggravando la recessione in atto, anzi trasformandola in una depressione in confronto alla quale quella seguita al 1929 sembrerà uno scherzetto. La parola d’ordine emersa è stata quindi quella di spargere tranquillità e di non aggravare la situazione parlando di “guerra delle valute”.
In realtà non parlare di qualcosa che fa paura non è altro che l’ammissione che la situazione è gravissima sia perché i segnali di una ripresa non ci sono sia perché, quando ci sono, essi sono favoriti da una massiccia e continua iniezione di liquidità nel sistema per sostenere la domanda interna e quella globale. Soldi che in buona sostanza, come quelli versati dalla Bce, sono serviti soltanto alle banche per rifarsi delle perdite subite a causa di investimenti andati a male e di vere e proprie speculazioni.
Il mondo infatti vive di debito con i governi che stanno portando alle sue estreme applicazioni la teoria keynesiana del “deficit spending”. A questo si aggiunge poi l’elemento più destabilizzante, ossia l’esistenza, sui mercati finanziai internazionali, di titoli spazzatura, derivati e no, il cui valore totale è decine di volte superiore a quello del Pil mondiale. Eppure pochi politici ne parlano come se fosse un male necessario con il quale dover convivere.
Il direttore generale del Fondo monetario internazionale, la francese Christine Lagarde, non ha fatto altro che peggiorare la situazione sostenendo che parlare di guerra di valute è esagerato e che al G20 si è parlato semmai di preoccupazioni per le singole monete. Della serie: se non è zuppa, è pan bagnato. Alle difficoltà, ha sostenuto, il G20 risponde con la cooperazione e non con il conflitto. I problemi ci sono e sono conosciuti, dalla crescita globale troppo bassa e da una disoccupazione in continuo aumento.
Quindi la Lagarde, tanto per ribadire come la pensa, ha sostenuto che la debolezza dell’economia deriva dalla incertezza politica, dalla riduzione della leva finanziaria privata, dal drenaggio fiscale, e infine dai progressi insufficienti nel riequilibrio della domanda globale. Affermazioni rafforzate con quella sulla necessità di una riforma finanziaria per costruire un sistema più resistente (e più in là un governo mondiale) e con l’altra sulla necessità di credibili piani di bilancio a medio termine per fornire flessibilità fino a quando la crescita non sarà pienamente ristabilita. Considerazioni che vanno lette nell’ottica di dare altri soldi alle banche sperando che, non si sa come, arrivi la tanto sospirata ripresa economica.
In realtà, i governi del G20 possono soltanto navigare a vista e danno l’idea di non saper fare altro che rimandare il più possibile la data della definitiva resa dei conti. La linea che emerge dalle parole della Lagarde è quella di continuare a drogare la domanda interna nei singoli Paesi e quella globale con la speranza che le cose si aggiustino da sole. Quando si afferma che non si vuole innescare una guerra delle valute, ci si riferisce a quelle di Cina e Giappone, ambedue sul banco degli accusati perché si avvalgono di una svalutazione di fatto che gli permette di rendere più competitive le proprie esportazioni.
Se il cambio favorevole dello yuan cinese ha permesso a Pechino il boom economico che da 10 anni caratterizza l’ex Celeste Impero, e che di riflesso trascina l’intera domanda globale, con un mercato di oltre un miliardo di consumatori, per lo yen giapponese è un altro paio di maniche. Il governo di Tokyo ha respinto l’accusa di avere intenzionalmente perseguito la perdita di valore della propria moneta per sostenere le esportazioni.
La svalutazione che si è avuta negli ultimi mesi, ha osservato il primo ministro Shinzo Abe, compensa la rivalutazione avutasi in precedenza. In ogni caso, la politica monetaria, peraltro già accettata dagli altri Paesi del G20, è finalizzata a raggiungere un preciso obiettivo di politica economica, quello del contenimento dell’inflazione sotto il livello del 2%. Del resto, con un debito pubblico al 230% del Prodotto Interno Lordo, ci vuole poco a far ripartire una domanda interna in eccesso che avrebbe effetti catastrofici sull’aumento dei prezzi. E si ripercuoterebbe negativamente sulla domanda globale.
Fonte: rinascita.eu