« Nessun governo in tempo di pace ha sprecato tante risorse quante ne ha sprecate il sistema finanziario privato americano.»
La notizia che la nazionalizzazione delle banche potrebbe essere necessaria anche secondo Alan Greenspan dimostra quanto la situazione sia disperata. Come è evidente da tempo, l’unica soluzione è che il nostro sistema bancario sia rilevato dal governo, forse sulla falsariga di quanto fecero Norvegia e Svezia negli anni ’90. Bisogna farlo, e farlo in fretta, prima che altri soldi vadano sprecati in manovre di salvataggio.Il problema delle banche americane non è solo un problema di liquidità. Anni di comportamenti sconsiderati, tra cui la concessione di crediti inesigibili e l’avere giocato d’azzardo con i derivati, le hanno ridotte in bancarotta.
Se il nostro governo rispettasse le regole del gioco – che prevedono tra l’altro la chiusura delle banche il cui capitale è inadeguato – sono molte, se non moltissime, le banche che uscirebbero dal mercato.
Nessuno sa con certezza quanto sia grande il buco; secondo alcune stime la cifra ammonterebbe a duemila o tremila miliardi di dollari o più.
Dunque la domanda è: chi si farà carico della perdite? Wall Street non chiederebbe di meglio che uno stillicidio continuo del denaro dei contribuenti. Ma l’esperienza di altri paesi suggerisce che quando sono i mercati finanziari a comandare, i costi possono essere enormi. Paesi come l’Argentina, il Cile, l’Indonesia, per salvare le proprie banche hanno speso il 40% e oltre del loro prodotto interno lordo.
Il costo per il governo è di particolare importanza, dato l’indebitamento ereditato dall’amministrazione Bush, che ha visto il debito nazionale lievitare da 5.700 miliari di dollari a oltre 10.000 miliardi di dollari.
Se non stiamo attenti, la spesa pubblica per il salvataggio determinerà l’esclusione di altri programmi essenziali del governo, dalla previdenza sociale ai futuri investimenti in campo tecnologico.
C’è un principio fondamentale nell’economia dell’ambiente, detto «l’inquinatore paga»: gli inquinatori devono farsi carico del costo necessario a eliminare l’inquinamento da essi prodotto. Le banche americane hanno inquinato l’economia globale di rifiuti tossici; è una questione di equità ed efficienza che esse vengano costrette, prima o poi, a pagare il prezzo della bonifica. Solo facendo sì che il settore paghi i costi delle sue azioni, recupereremo efficienza.
L’amministrazione Obama ha lanciato una serie di idee, dal comprare i bad assets (detti anche «asset tossici», ndt) e metterli in una bad bank, lasciando che sia il governo a disporne; all’assicurare le banche; all’aiutare gli investitori privati (come gli hedge funds) a comprare i bad assets, presumibilmente prestando denaro agli investitori a condizioni di favore. Causa la mancanza di dettagli, il mercato ha accolto con perplessità l’annuncio dell’amministrazione Obama del suo cosiddetto piano. Il diavolo è nei dettagli, e senza i dettagli non possiamo essere certi di come si presenteranno le cose.
Una delle prime idee lanciate da Paulson era che il governo comprasse i bad assets dalle banche. Naturalmente, Wall Street era entusiasta di questa idea. Chi non vorrebbe scaricare la propria spazzatura sul governo a prezzi gonfiati? Le banche potrebbero liberarsi di alcuni di questi asset «cattivi» anche adesso, ma non al prezzo che vorrebbero.
Poi ci sono altri asset con cui il settore privato non vuole avere niente a che fare. Il 15 settembre il colosso delle assicurazioni Aig ha annunciato che era sotto di 20 miliardi di dollari. Il giorno successivo, le sue perdite erano salite a circa 85 miliardi di dollari. Un po’ dopo, quando nessuno ci faceva caso, c’è stata una ulteriore sovvenzione, che ha portato il totale a 150 miliardi di dollari. Poi il 1° marzo il governo ha stanziato per l’Aig altri 30 miliardi di dollari di soldi dei contribuenti: il quarto intervento in meno di sei mesi.
Quasi tutte le varianti della proposta «cash for trash» («soldi in cambio di spazzatura») si basano sull’idea di mettere i bad assets in una bad bank (i fautori del piano preferiscono il termine più gentile «banca aggregatrice»).
Ma le banche, anche se avessero solo gli asset «buoni», probabilmente non disporrebbero di liquidità neanche dopo che i contribuenti avessero strapagato la spazzatura.
Io credo che la bad bank, senza nazionalizzazione, sia una cattiva idea. Dobbiamo respingere qualunque piano di tipo «soldi in cambio di spazzatura». È un altro esempio dell’economia voodoo che ha segnato il settore finanziario: il tipo di alchimia che ha consentito alle banche di sminuzzare i mutui subprime, che avevano rating F, trasferendoli in titoli presunti sicuri con rating A.
Ancora peggiori sono le proposte di cercare di spingere il settore privato a comprare la spazzatura. In questo momento i prezzi che esso è disposto a pagare sono così bassi che le banche non sono interessate – la dimensione del buco nei loro bilanci verrebbe allo scoperto. Ma se il governo assicurasse gli investitori del settore privato – e inoltre concedesse prestiti a condizioni favorevoli – il settore privato sarebbe disposto a pagare un prezzo più alto. Con una sufficiente assicurazione e termini per i prestiti favorevoli, oplà! Possiamo rendere le nostre banche solvibili. Questa proposta, come molte altre provenienti dagli ambienti bancari, si basa in parte sulla speranza che, se le banche renderanno le cose sufficientemente complesse e opache, nessuno noterà il regalo al settore bancario finché non sarà troppo tardi.
Le imprese spesso si mettono nei guai – accumulando più debiti di quanti ne possano ripagare. Da sempre c’è un modo di risolvere il problema, chiamato «riorganizzazione finanziaria», o bancarotta.
La bancarotta spaventa molte persone, ma non dovrebbe. Tutto quello che succede è che le pretese finanziarie nei confronti dell’impresa vengono ristrutturate. Quando l’impresa naviga in acque molto brutte, gli azionisti vengono spazzati via, e gli obbligazionisti diventano i nuovi azionisti. Quando la situazione è meno grave, una parte del debito viene convertita in capitale netto. In ogni caso, senza il fardello dei pagamenti mensili del debito, l’impresa può tornare alla redditività.
Le banche differiscono sotto un solo aspetto. Il fallimento di una banca si traduce in un particolare stato di sofferenza per i correntisti e può portare a problemi più ampi sul piano economico.
Ancor peggio, la lunga esperienza ci ha insegnato che quando le banche rischiano di fallire, i loro dirigenti mettono in atto comportamenti che comportano il rischio di far perdere ancora più soldi ai contribuenti.
Ad esempio, possono fare grosse scommesse: se vincono, si tengono il ricavato; se perdono – e allora? tanto sarebbero morti comunque.
Ecco perché abbiamo leggi che dicono che quando il capitale di una banca è poco, questa deve essere chiusa. Non aspettiamo che la cassa sia vuota.
L’amministrazione Obama sembra proporre una via d’uscita da questo pasticcio: vi sottoporremo a uno «stress sotto sforzo». Vediamo come ve la cavate. Se superate il test, vi aiutiamo a uscire dalle vostre difficoltà temporanee. Il ricorso a test sotto sforzo comporta l’utilizzo di modelli matematici per vedere che cosa succede nei diversi scenari. Le banche dovevano sottoporsi esse stesse a questo tipo di test regolarmente. I loro modelli dicevano che tutto andava bene. Sappiamo che quei modelli hanno fallito.
Quello che non sappiamo è se i modelli che userà l’amministrazione saranno migliori. Ci è stato detto che servirà del tempo per fare il test, e mentre aspettiamo, metteremo altri soldi in istituzioni che stanno fallendo, soldi buoni in cambio di cattivi, con un debito nazionale sempre maggiore.
Gradualmente l’America sta capendo che dobbiamo fare qualcosa, adesso.
Abbiamo già una cornice di riferimento per quanto riguarda il modo di trattare con le banche il cui capitale è inadeguato. Dovremmo usarla, e velocemente, forse con alcune modifiche necessarie ad affrontare la natura inusuale dei problemi odierni. Possiamo procedere in molti modi. Una proposta innovativa (varianti della quale sono state lanciate da Willem Buiter alla London School of Economics e da George Soros) prevede la creazione di una good bank (una «banca buona»). Invece di riversare gli asset tossici sul governo, dovremmo estrarre quelli buoni – quelli a cui si può facilmente assegnare un prezzo. Se il valore delle pretese dei correntisti e di altre pretese che riteniamo debbano ricevere tutela è minore del valore degli asset, allora il governo firmerà un assegno alla vecchia banca (la chiameremmo bad bank). Se accade il contrario, allora il governo potrebbe vantare una pretesa prioritaria nei confronti della vecchia banca. In tempi normali, sarebbe facile ricapitalizzare la banca «buona» privatamente. Ma questi non sono tempi normali, perciò il governo potrebbe dover gestire la banca per un po’ di tempo.
Di questi tempi, non suonano convincenti coloro che dicono che non si può confidare nel fatto che il governo allochi il capitale in modo efficiente. Dopo tutto, il settore privato non si è comportato molto bene. Nessun governo in tempo di pace ha sprecato tante risorse quante ne ha sprecate il sistema finanziario privato americano. Gli incentivi di Wall Street erano studiati per incoraggiare un comportamento miope ed eccessivamente rischioso.
C’è ogni motivo per credere che una banca temporaneamente nazionalizzata si comporterà molto meglio – anche se la maggior parte dei dipendenti saranno comunque gli stessi – semplicemente perché avremo cambiato gli incentivi perversi.
L’esperienza maturata in altri paesi, compresi quelli scandinavi, dimostra che l’intera operazione può essere condotta bene – e quando alla fine l’economia torna alla prosperità, le banche in grado di fornire un utile possono essere restituite al settore privato.
Non servono soluzioni mirabolanti. Le banche, semplicemente, devono tornare a ciò a cui servono: prestare soldi, con prudenza, alle imprese e alle famiglie, sulla base di una valutazione buona – e non marginale – dell’utilizzo cui è destinato il prestito e della possibilità per chi lo ha ricevuto di restituirlo.
Ogni fase di flessione prima o poi termina. Alla fine potremo vendere le banche ristrutturate a un buon prezzo – anche se, è sperabile, non a un prezzo basato sull’aspettativa esuberante e irrazionale di un’altra bolla finanziaria. L’idea che trarremo profitto dalle manovre di salvataggio – il settore finanziario ha cercato di spacciarcele per «investimenti» – sembra essere caduta dal discorso pubblico. Ma almeno possiamo usare i proventi della vendita finale delle banche ristrutturare per ripagare l’enorme deficit che questa debacle finanziaria avrà causato al nostro paese.
Fonte: thenation.com/doc/20090323/stiglitz?rel=hp_currently
Versione italiana abbreviata: il manifesto, 8 marzo 2013. Traduzione a cura di Marina Impallomeni.
Fonte: Il Manifesto