La politica danneggia gravemente l’immagine dell’Italia

Pubblichiamo questo articolo, ripreso attraverso Linker Blog di Fabio Bolognini, di Michela Cappellini sul Sole 24 Ore del 25 marzo, che affronta l’argomento dell’export italiano da una prospettiva diversa, che esce dal solito coro dei sostenitori a tutti i costi della forza del nostro sistema sui mercati esteri.

Il doppio: 1.097 contro 472 miliardi di euro di export. Germania batte Italia sui mercati internazionali. Ma che cos’hanno, le loro aziende, che non abbiamo noi? Semplice: un management all’altezza. Capace di dare una linea all’impresa, di essere responsabile socialmente e di rispettare l’ambiente. Il tutto senza rinunciare alla redditività. E la qualità dei prodotti? Fosse per quella, non ci batterebbe nessuno: il 57,7% dei consumatori è pronto a consigliare a parenti e amici l’acquisto del made in Italy. A sponsorizzare i concorrenti tedeschi è invece il 56% degli intervistati, il 53% nel caso dei francesi.

Le indicazioni arrivano dal Reputation Institute, società di consulenza che aiuta le aziende a sviluppare la propria reputazione in casa come sui mercati stranieri. Abbiamo chiesto ai suoi esperti cosa pensano delle nostre imprese, di quelle tedesche e di quelle francesi in Russia, in Cina e in Brasile. E il risultato è netto: l’Italia è indiscutibilmente peggio vista della Germania; e quanto alla Francia, seppur la battaglia sia più combattuta e a tratti ci veda in testa, finiamo anche in questo caso col perdere la sfida. «La reputazione di un’azienda – spiega Michele Tesoro, responsabile per l’Italia di Reputation Institute – è influenzata da molteplici fattori come i prodotti che offre, la capacità di innovare, un comportamento etico e responsabile e l’abilità del management nell’essere leader e nel garantire una buona performance economico finanziaria. Le analisi in nostro possesso ci dicono effettivamente che i nostri manager sono percepiti all’estero come meno capaci rispetto ai nostri diretti competitor tedeschi o francesi, ad esempio».

I manager italiani non scontano solo responsabilità dirette. A creare questa fama contribuiscono anche altri fattori: come la situazione economica del sistema Paese, che viene letta come meno efficiente e affidabile di altri paesi europei, o la nostra situazione politica. Senza dimenticare «alcuni recenti scandali – dice Tesoro – che hanno coinvolto aziende molto note, spesso quotate e quindi presenti sulle riviste straniere e potenzialmente anche nel portafoglio di investitori non italiani. Finmeccanica, Monte dei Paschi, Saipem solo per citarne alcune».

La minore affidabilità degli italiani non si fa sentire allo stesso modo in tutto il mondo emergente. In Brasile, per esempio, il gap rispetto alla concorrenza tedesca è molto meno evidente. Senza contare che, rispetto ai francesi, ce la caviamo addirittura meglio. La strategia delle aziende italiane in Brasile è stata dunque vincente. Del resto, nell’indice globale del Reputation Institute, i brasiliani sono in assoluto nel mondo quelli che più volentieri comprerebbero – o farebbero comprare a un amico – un prodotto made in Italy.

All’opposto, la Russia è il paese dove soffriamo di più la competizione con le imprese tedesche. Perdiamo punti sul fronte dell’innovazione di prodotto e su quello della tutela dell’ambiente. Ma soprattutto, li perdiamo sul terreno della performance: proprio la carta che, nell’immaginario collettivo dei russi, conta di più quando si tratta di dare un giudizio su un’azienda. Un tema su cui riflettere, questo, visto che Mosca rappresenta uno dei più importanti mercati di sbocco del nostro export. «Generalizzare non è mai troppo corretto – aggiunge poi il ceo Tesoro – ma è pur sempre vero che i paesi dell’ex blocco sovietico hanno alcune caratteristiche che li accomunano. E se in Russia e le aziende italiane risultano meno credibili, questo potrebbe valere anche per i paesi limitrofi dell’Est europeo». Un’area ancor più strategica per il made in Italy.

La reputazione, beninteso, è solo uno dei fattori che determinano il successo di un’azienda in un mercato straniero. Ma saperla declinare a seconda delle peculiarità culturali di ciascun paese può rivelarsi una carta utile. Lo sa bene Pirelli che, avendo compreso in anticipo quanto i temi ambientali fossero importanti per i brasiliani, ha accompagnato la strategia di business nel paese con un adeguato piano di responsabilità sociale d’impresa. E tutto questo ha pagato: non solo ha ottenuto la licenza di operare in Brasile e sta avendo una brillante performance economica, ma i brasiliani sono fieri di citare Pirelli come fosse un brand nazionale. Al contrario, Fiat in Cina è un esempio da tenere sott’occhio: «Dopo anni di alterne vicende sul mercato cinese – ricorda Tesoro – sembra ora aver trovato un modello di business più solido e convincente dopo l’accordo con Gac. Ma non è detto che abbia capito ciò che si aspettano da lei gli abitanti di Pechino».