Nella mitologia delle Wanna Marchi politiche nostrane, il Giappone rappresenta la terra promessa della spesa pubblica finanziata in disavanzo senza onere alcuno per il contribuente; l’isola beata ove la politica con la sola forza dei buoni propositi inverte il destino di un’intera nazione, affermando la propria onnipotenza sui condizionamenti della realtà e sulle leggi economiche.
Da menti perfettamente asservite all’ideologia quali sono, coloro i quali acclamavano il presidente del consiglio Abe e il governatore della BOJ – la banca centrale nipponica – Kuroda come iniziatori di una nuova era di prosperità universale, hanno ovviamente ritenuto superfluo andare a verificare i risultati di politiche che essi avevano già fideisticamente proclamato salvifiche. Ai lettori d invece vorremmo offrire oggi un’analisi laica e realistica degli effetti della cosiddetta Abenomics sul Giappone e sui giapponesi.
Secondo gli auspici del governo di Tokio, l’espansione smisurata del deficit pubblico e del bilancio della BOJ, da un lato, inondando di liquidità un mercato interno desertificato dalla crisi demografica e dallo stato comatoso del sistema bancario, avrebbe stimolato la domanda domestica; dall’altro, rendendo le merci giapponesi più competitive grazie al deprezzamento dello Yen, avrebbe spinto le esportazioni e permesso al paese di agganciare la congiuntura internazionale. Insomma, Abe pensava di aver inventato una ricetta magica per avere la botte piena e insieme la moglie ubriaca.
Purtroppo però niente è ostinato come la realtà delle cose. Sul fronte della crescita infatti i risultati conseguiti sono a dir poco deludenti: il tentativo di reflazionare la domanda interna non ha prodotto benefici apprezzabili sulla dinamica del prodotto interno lordo, che ha fatto registrare invece nell’ultimo anno prestazioni decisamente negative e progressivamente peggiori rispetto a quelle realizzate, per esempio, dall’Eurozona.
Forse Abe non aveva messo in conto l’impatto delle proprie politiche sulla capacità di spesa dei cittadini giapponesi, che hanno pagato la svalutazione monetaria con un drastico taglio del potere d’acquisto dei loro salari (-1,8% anno su anno ad Ottobre), sebbene in Italia i nostalgici della Lira si ostinino a presentare il Giappone come un caso di svalutazione indolore in barba a tutte le evidenze aritmetiche.
È possibile che il vero scopo non dichiarato dell’Abenomics, come in realtà quello di tutte le svalutazioni competitive, fosse in realtà proprio quello di comprimere il reddito dei lavoratori per rimpinguare le casse degli esportatori, imponendo di fatto ai cittadini il versamento di un obolo occulto alle grandi aziende nazionali.
Peccato però che tale sacrificio non si sia tradotto in alcun modo in un miglioramento del saldo con l’estero: al contrario, nonostante il crollo del valore dello Yen sui mercati, la bilancia commerciale giapponese ha continuato a peggiorare nel 2013 per poi stabilizzarsi in territorio ampiamente negativo nel 2014, in forte contrasto, per esempio, con il crescente surplus registrato dall’Eurozona.
La svalutazione dello Yen, insomma, ha comportato per il cittadino medio solo costi senza alcun corrispondente ritorno: tale fallimento, per di più in un’economia ad alto tasso tecnologico come il Giappone, dovrebbe far riflettere i predicatori da baraccone che ci propinano il deprezzamento della moneta come ricetta universale per mandare in orbita la bilancia commerciale e il PIL.
Ma se i benefici attesi dall’Abenomics si sono rivelati sin qui illusori, già ben reali sono invece i suoi oneri, concretati innanzitutto negli interessi sul debito pubblico, che hanno raggiunto nel 2015 un tale livello da assorbire ben il 43% delle entrate tributarie. Se poi consideriamo l’esplosiva dinamica del debito e la terrificante parabola demografica (si prevede un declino del 35% della popolazione nei prossimi 40 anni), è evidente che quel sistema di taglieggiamento del reddito dei lavoratori a vantaggio dei titolari di debito pubblico che è ormai il fisco giapponese diverrà presto insostenibile, per quanto certi mistificatori tentino di convincerci che la mitica sovranità monetaria renderebbe la spesa e il debito pubblico gratuiti. Nossignori: anche fuori dall’Euro, anche senza la BCE, spendere e spandere costa caro. Forse ancora di più.
Non crediate però che la politica di Abe sia stata deleteria per tutti: a beneficiarne sono stati ovviamente gli operatori di borsa, le grandi banche e tutti coloro i quali, occupando la vetta della piramide del sistema finanziario, si sono trovati più vicini alla sorgente del fiume di Yen riversato sui mercati da Kuroda.
Con buona pace dei verginelli che parlano della BOJ come esempio di banca centrale “al servizio del popolo”, proprio l’Abenomics dimostra invece come le politiche monetarie non convenzionali esprimano una cultura economica fascista, fondata sull’esproprio dei cittadini a favore della finanza e della grande impresa nazionale. Ovviamente i complottisti di professione non vorranno ravvisare qui alcuna malversazione ai danni del popolo, visto che non è possibile attribuirla né a qualche banchiere di origine ebraica né ad alcun oscuro funzionario francese o tedesco.
I numeri però parlano una lingua inequivocabile e ci raccontano una verità molto diversa da quella propagandata dagli infantiloidi secondo i quali basterebbe premere il tasto “stamp” del pannello di controllo della banca centrale per azionare una crescita inarrestabile e perpetua.
La realtà purtroppo – o per fortuna – non si piega ai desideri umani e neppure alla ferrea volontà di un popolo di samurai convertiti all’ingegneria informatica e gestionale. E leggi economiche escludono che col solo deficit spending e con la sola svalutazione competitiva si possa generare crescita economica reale e duratura.
Guardatevi dagli avventurismi e dagli illusionismi di chiunque vi proponga l’Abenomics come un affare per voi vantaggioso.
Articolo di D. Bortoluzzi – ripreso dal sito immoderati.it