I fondi comuni aperti italiani o esteri, conformi alla direttiva europea 2009/65/CE , sono quotati sul segmento ETFplus, lo stesso degli ETF attivi. La negoziazione è effettuata da un intermediario finanziario: si tratta di una normale negoziazione in Borsa, come per ETF, azioni e via dicendo.
Ogni giorno vi è un solo prezzo (proprio come avviene acquistando il fondo da una banca o un promotore). Quindi la quotazione del fondo nell’arco della giornata non fluttua, come avviene invece per azioni ed ETF.
Importantissimo: non si applica alcuno spread denaro-lettera (o bid-ask). A parità di altre condizioni, è un bel risparmio nei costi di negoziazione. Potrebbe stimolare la competizione con gli ETF.
Il prezzo di giornata coincide con il valore netto unitario del fondo (il “NAV”) che la società di gestione comunica al termine del giorno successivo alla data di negoziazione. Più precisamente, inviando un ordine d’acquisto/vendita oggi, entro le 11 del mattino (orario di cut-off), acquisterete al NAV odierno (noto il giorno dopo), mentre il pagamento/incasso del controvalore avverrà solo il terzo giorno successivo.
Come cambierà il mercato del risparmio gestito in Italia?
È un evento significativo. All’inizio il cambiamento sarà lento: i fondi comuni inizieranno a essere quotati alla spicciolata (tra l’altro, quelli di diritto italiano hanno ancora da superare una piccola impasseburocratica legata alla mancanza di un regolamento, cosa che li rallenterà un poco).
Le società di gestione si dividono tra quelle entusiaste, pronte a quotare i loro fondi quanto prima, quelle che studieranno la situazione e decideranno con calma cosa fare, e quelle fieramente ostili.
Perché ostili? Beh, qui è in gioco l’accordo di spartizione delle commissioni generate dalla vendita dei fondi comuni. Un piatto ricco: in Italia, in media, circa due terzi delle commissioni pagate sui fondi comuni retribuiscono chi li vende, per lo più reti bancarie e promotori. Alcune aziende arrivano ad abominevoli percentuali che sfiorano l’80% (leggete il pezzo di Gianfranco Ursino su “Plus24″ del 22 novembre 2014).
Non è un caso che, sebbene i risparmi italiani siano fiacchi, il settore della distribuzione dei fondi sia ricco, come mostrano le retribuzioni medie di chi ci lavora. Le rendite di posizione sono mostruose.
Quando ero gestore in Allianz, funzionava così. Il mio team gestiva un’intera linea di prodotti, sui quali eravamo in utile con commissioni dello 0,30% circa. Ma il TER per il risparmiatore che le acquistava era 3,5% (media della linea di prodotto): quindi oltre il 3% delle commissioni pagate dai risparmiatori retribuiva chi vendeva i prodotti, per tutta la durata dell’investimento. Il bello è “come”.
I promotori erano organizzati in modo piramidale, raggruppati per aree geografiche via via più ampie. Parte delle commissioni incassate dai promotori più junior erano cedute al loro diretto superiore e, per via gerarchica, ai livelli più elevati.
Chi si trovava in alto nella piramide e aveva sotto di sé grosse masse di denaro godeva così di una rendita di posizione, anche senza vendere più nulla. Vecchi promotori seduti su un mucchio d’oro come Smaug, il drago dello “Hobbit”. Chi era più in basso, remava: ho conosciuto giovani promotori che, girando dai clienti come trottole, faticavano a sbarcare il lunario. Parlo di Allianz solo perchè è una realtà che conosco bene, ma attenzione: meccanismi simili sono tipici di tutte le reti italiane.
Meccanismi feudali inefficienti, sbilanciati verso i vertici, con principi, vassalli, valvassori e schiere di soldati semplici – anche se la recente normativa sulle retribuzioni di chi si occupa di collocamento fondi forse cambierà qualcosa.
Il sistema può cambiare
L’arrivo dei fondi in Borsa può cambiare tutto: è una piccola singolarità gravitazionale all’interno del sistema. Un giovane buco nero che può crescere e inghiottire il business model feudale. Pensateci: lo stesso fondo venduto da reti bancarie e promotori, se negoziato in Borsa avrà verosimilmentecommissioni del 50-70% più basse, perché mancherà la fetta che remunera chi vende.
Questo business model feudale si è mantenuto in vita perché la maggior parte dei risparmiatori ignora di lasciare il 70% delle commissioni a chi vende il fondo. Il quale giustifica quest’ampia porzione commissionale con la consulenza finanziaria. Ma con la quotazione in Borsa sarà tutto alla luce del sole. I risparmiatori potranno distinguere i costi di gestione da quelli del consulente, valutando se:
- la qualità della consulenza finanziaria fornita da banche e promotori giustifica la cospicua fetta del proprio patrimonio (magari il 2-3%) pagata loro;
- oppure se sia preferibile optare per un fondo quotato in Borsa, con TER più basso, ricercando la consulenza altrove, o imparando l’ABC della finanza personale e poi arrangiandosi.
Vi sono quindi ampi spazi per migliorare la qualità della consulenza finanziaria e ridurre le commissioni di gestione, visto che, come evidenzia Banca d’Italia, quelle dei fondi comuni italiani sono più elevate rispetto ai principali Paesi europei.
La gamma di fondi a disposizione dei risparmiatori dovrebbe inoltre ampliarsi. Potrebbero arrivare in Italia società estere che finora non si sono piegate al giogo delle commissioni gonfiate solo per retribuire i collocatori. Mi spiego.
Immaginiamo una società di gestione senza rete di vendita in Italia, con ottimi prodotti e commissioni (per esempio) dell’1%. Fino a oggi, per vendere i prodotti in Italia, si sentiva chiedere dalle reti di vendita commissioni anche del 2%. Ma gonfiando le commissioni del 2% e portandole al 3%, la performance del fondo soffre: per un gestore è come partire per una lunga nuotata in mare aperto con una palla di piombo da 3 kg legata a una caviglia.
In passato, molti gestori non ci stavano. Ora queste case prodotto (le SGR) possono semplicemente quotare in Borsa i loro fondi e promuoverne la visibilità. Chissà cosa succederà se un colosso comeVanguard punterà lo sguardo sul mercato italiano!
La casta che oggi domina la distribuzione dei fondi comuni non è felice della quotazione in Borsa dei fondi, ovvio. Vi diranno che la loro preziosa consulenza finanziaria vale il 70% delle commissioni, che il fai da te è pericoloso, che i fondi sono difficili da selezionare. Hic sunt leones, insomma.
In buona parte sono giustificazioni prive di fondamento: le esigenze della maggior parte dei risparmiatori italiani sono simili, standardizzabili e non richiedono un’attività consulenziale troppo complessa. Un consulente dovrebbe farsele pagare una cifra ragionevole e non, come spesso accade senza che ve ne accorgiate, migliaia di euro all’anno (su patrimoni di media dimensione).
Per ciò che riguarda il fai da te, per il risparmiatore medio italiano direi che occorre la stessa abilità necessaria per gestire con buona autonomia il PC di casa: voglia di capire i principi base, un po’ di pazienza all’inizio, buon senso, tenersi informati. Sul web gli aiuti non mancano. E tra gli altri… ci siamo noi.
Articolo ripreso dal sito adviseonly_com, autore R_Zenti