L’interrogarsi sull’impatto più o meno depressivo della manovra di finanza pubblica ha qualcosa di curioso. Sembra sfuggire che la manovra deve essere recessiva. Se non lo fosse o se, grazie a una magia delle aspettative, avesse addirittura effetti espansivi sulla domanda per consumi e investimenti sarebbe un problema.
Si dovrebbero mettere in campo nuove misure fiscali di restrizione. Non è un paradosso. È il meccanismo di riequilibrio vigente nell’euro che comanda recessione. L’aggiustamento degli squilibri intra-area è esclusivamente a carico dei paesi in deficit di competitività e indebitati. E si deve espletare attraverso la contrazione della loro domanda interna e l’abbassamento delle dinamiche di prezzi e salari sotto quelle dei paesi “virtuosi”. Null’altro viene prescritto, men che meno per le economie in surplus che sono state concausa degli sbilanci intra-area. Perché si fatica a prenderne atto? L’applicazione della regola europea, ribadita al vertice del 9 dicembre col progetto di una Unione fiscale di stabilità, si incardina su politiche deflative.
L’AMPIEZZA DELLA RECESSIONE
Se recessione da austerità ha da essere, la determinazione di quanto sarà profonda è, tuttavia, soggetta a un alto grado di incertezza per la situazione senza precedenti in cui ci si trova. Francesco Daveri propone un interessante confronto con l’altra grande manovra adottata dall’Italia un ventennio fa, quella di Giuliano Amato del settembre 1992 che fu di portata comparabile, nei valori assoluti attualizzati, con quelle cumulatesi dalla scorsa estate.
Ma a parte la consonanza di cifre, sussistono differenze rispetto ad allora. Due sono fondamentali: non abbiamo più a disposizione il cambio, che nel 1992-93 si svalutò fortemente sostenendo le esportazioni; non siamo gli unici a stringere in Europa, anzi ci si trova nella pericolosa condizione, imposta dalle regole europee, di una deflazione praticamente coordinata, senza alcuna compensazione di stimolo altrove nell’area.
Per cercare di avere ordini di grandezza dei possibili effetti, tenendo conto delle differenze rispetto al 1992, si può ricorrere alle stime dell’Fmi che ha studiato oltre 170 episodi di aggiustamento fiscale di 17 paesi avanzati nel periodo 1980-2009.
La domanda a cui risponde il Fondo è: quanto è stato, in media nel panel esaminato, l’effetto sul Pil reale di una correzione di bilancio pari all’1 per cento di prodotto interno lordo? L’Fmi fornisce, quindi, delle elasticità di risposta che possono essere utilmente applicate al caso del consolidamento italiano. Procedendo in questo modo si suppone che il Pil dell’Italia reagirà nei prossimi anni all’azione di contenimento della finanza pubblica in modo simile a quanto si è osservato, in media, nelle 17 economie durante l’ultimo trentennio.
SE NON SI PUÒ AGIRE SUL CAMBIO
Ma è questo il caso rilevante per la situazione italiana? Forse per l’Italia del 1992-93, non per quella di oggi. Le simulazioni dell’Fmi includono esperienze di consolidamento fiscale tipicamente accompagnate da stimolo monetario e deprezzamento del cambio. Il primo ha consentito di contenere la flessione della domanda interna, il secondo ha sospinto le esportazioni nette. Entrambi questi canali di compensazione sono, però, assenti nelle attuali condizioni. Sul fronte dei tassi d’interesse, la politica monetaria ha perso efficacia nella trasmissione degli stimoli al sistema bancario e il rischio più che concreto è semmai quello di un credit crunch che si sommerebbe alla restrizione fiscale. Per il cambio, la svalutazione non può avere luogo per la porzione di interscambio dell’Italia (45 per cento) intrattenuta con i paesi euro, che è quella rilevante per il riequilibrio all’interno dell’area.
Sembrano quindi più vicine all’odierna situazione italiana le elasticità stimate dall’Fmi in assenza di deprezzamento del cambio (e senza, quindi, risposta delle esportazioni nette). Adottando queste valutazioni, il costo del consolidamento fiscale dell’Italia in termini di minore output si amplifica sensibilmente, risultando pari a poco meno di 5 punti percentuali nell’arco del triennio 2012-14; la flessione sarebbe più consistente nel prossimo biennio (-2 per cento all’anno nel 2012-13) e tenderebbe a estendersi al 2014. L’assenza della svalutazione ha dunque un’influenza fondamentale nell’inasprire l’impatto del consolidamento: solo per questo motivo ci si può attendere un’incidenza sul Pil all’incirca doppia rispetto a quanto sperimentato venti anni fa.
Ma anche tali quantificazioni non vanno del tutto bene. Non considerano il fatto che l’Italia non è sola nell’implementare severe misure di risanamento. L’austerità fiscale è perseguita praticamente dappertutto in Europa, anche dalla Germania. Gli effetti sul Pil quando molti paesi adottano contemporaneamente provvedimenti di austerità si accrescono. E ciò è particolarmente vero nel caso europeo dove gli intensi legami commerciali non fanno che amplificare la trasmissione tra le economie di interventi simultanei volti a comprimere le domande nazionali. Ma anche la possibilità di dolorose “svalutazioni interne” viene a essere preclusa nell’attuale contesto europeo: è impossibile che tutti i paesi riescano ad abbassare, allo stesso tempo e nella misura necessaria per il riequilibrio, i loro prezzi e costi rispetto a tutti gli altri partner.
Le simulazioni dell’Fmi, ottenute con una metodologia diversa dalle precedenti, consentono di avere un’idea dell’inasprimento dell’impatto restrittivo di azioni simultanee. Delle varianti analizzate dal Fondo si considera quella in cui l’autorità monetaria non ha spazi per stimoli monetari, più vicina all’attuale condizione europea. Applicando le stime di elasticità al consolidamento italiano (caso C) la perdita di prodotto conseguente all’austerità fiscale si commisurerebbe in circa 8 punti percentuali nel prossimo triennio, con una caduta più forte concentrata nel biennio 2012-13 seguita da un parziale rimbalzo. È possibile che questo effetto risulti sovrastimato nella situazione italiana per il fatto che altrove, fuori dall’Europa, la corsa al consolidamento fiscale non è la regola.
Tuttavia è lecito attendersi dalla simultaneità degli aggiustamenti europei un sostanziale rafforzamento dell’impatto depressivo rispetto al caso, più simile all’esperienza del 1992, in cui l’Italia sia la sola a risanare e non benefici di maggiori esportazioni nette.
Qualunque sia lo scenario di base a cui i vari sviluppi presi in considerazione vengono applicati, la prospettiva che ne scaturisce è di una recessione significativa, in particolare se si considera la condizione di “deflazione coordinata” vigente in Europa; in quest’ultimo caso la perdita di prodotto potrebbe essere tale da mettere a rischio la riduzione del rapporto deficit/Pil.
Soprattutto la recessione interviene non al picco di un ciclo espansivo, ma quando sono ancora aperte le ferite della flessione precedente. L’output gap è pressoché ovunque ampiamente negativo, i tassi di disoccupazione si situano ben al di sopra dei valori di equilibrio. Anche in un paese come l’Italia, affetto da bassa crescita di lungo periodo, la condizione attuale è quella di una economia che ha carenza di domanda, non di offerta. Le misure di austerità sottraggono ulteriormente domanda aggregata e conducono a un peggioramento del mercato del lavoro. Le misure di inclusione di giovani e donne e la prospettata riforma del mercato del lavoro perdono gran parte della loro efficacia in condizioni di disoccupazione di tipo keynesiano.
Si è detto all’inizio che questa è la conseguenza dell’applicazione della regola europea. Essa è resa vieppiù cieca in tempi di crisi del debito: il risanamento deve realizzarsi subito indipendentemente dal ciclo, una prescrizione da anni Trenta. Certo si può sostenere che sono i mercati a imporlo. Ma questo è vero solo nell’attuale modus operandi di regole e rapporti di forza europei. È possibile immaginare, sono tanti a farlo, gestioni diverse della crisi meno costellate da errori e in cui un ruolo attivo, massiccio e convincente della Bce, nell’ambito degli attuali Trattati, riduca i timori degli investitori e allontani la prospettiva di avvitamento autodistruttivo delle economie europee.
Articolo ripreso da lavoce.info